NICCODEMO D'ALICARNASSO…

NICCODEMO D’ALICARNASSO, Meditazione sulla propria fanciullezza e qualche strascico, Pergamena un po’ rovinata del secolo X, probabilmente coeva dell’epoca di Celestino V

Da La donna che parlava ai libri di Dante Maffia

Mi sono sempre chiesto perché alcuni trovano interessanti gli epistolari degli scrittori che nascono sempre inficiati dal “vizio della posterità”. Scrivono all’amico, ai lettori, alle amanti, con la consapevolezza che un giorno quelle lettere saranno raccolte e qualche professore di filologia se ne occuperà in un saggio e ci farà scrivere sopra anche una tesi di laurea. Una tristezza: così diventa tutto falso e le lettere diventano lettere da palcoscenico. Gli scrittori dovrebbero avere il coraggio e la franchezza di mettere sulla carta ciò che sentono davvero, ciò che realmente pensano, allora sì che il documento della loro vita acquisterebbe una sostanza diversa e potrebbe illuminare non solo la loro scrittura, ma forse delle intere epoche. Pazienza. Gli scrittori di vizi da teatro ne hanno più degli attori e il guaio è che spesso credono che nessuno se ne accorga, nessuno se ne renda conto.
Io sono stato diverso, almeno per i primi venti anni. Certo, scrivevo già poesie e brevi pièces teatrali, ma erano una necessità e non pensavo nemmeno per sogno di dedicarmi alla letteratura. Le scrivevo così come l’ortolano andava a zappare la lattuga, così come il ciabattino risuolava le scarpe. Era un modo come un altro di passare il tempo, di credermi importante, per me stesso, s’intende, non per qualcuno estraneo. Quando ho capito che la scrittura poteva interessare gli altri e che gli altri avevano attenzione ai miei fogli, allora ho cominciato anch’io ad atteggiarmi a scrittore, a fare finta di assentarmi in mezzo agli altri, ad essere pensoso in compagnia degli amici, a guardare l’orizzonte (era una noia stare lì con lo sguardo rivolto a qualcosa che non c’era), a dire ogni tanto una parola che significasse e non significasse nulla. Venivo guardato in un certo modo! All’Università mi mettevo nel piazzale antistante la Facoltà di Lettere e sul muretto della fontana scrivevo qualcosa su un taccuino. Le ragazze mi guardavano. E si avvicinavano. Si sprigionava da me una energia che investiva la curiosità. In fondo la scrittura è un mistero a cui vogliono partecipare in tanti.
Ma non era di questo che volevo parlarvi. Se divago è colpa di certe associazioni che scaturiscono chissà come, s’insertano, diceva un mio professore di lettere che era figlio di contadino e pensava sempre alle serte di peperoni appese dalla mamma nel suo balcone.
Volevo parlavi di come ho vissuto i primi venti anni della mia vita. Sono passato dentro le cose con una furia inconsapevole che adesso non riesco neppure a seguire passo passo per ricostruire qualche lacerto che mi possa condurre ad una analisi dei comportamenti. Prendevo e basta. Succhiavo ovunque secondo un mio modo molto particolare, percepivo le sensazioni diversamente dagli altri miei compagni e perfino una ragazza bella per me poteva essere considerata brutta e viceversa. Non erano atteggiamenti, ma un sentire profondo, un avvertire il fuoco delle cose e andarci dentro passando dall’altra parte. Ho studiato, mangiato, viaggiato, amato come il vento che s’insinua ovunque e non lascia traccia, anzi si avverte che c’è ma è invisibile. Non mi sono mai reso conto veramente di ciò che stavo facendo. Appartenevo al momento, alla logica della realtà che motivava i miei comportamenti e li guidava. Subito dopo niente mi restava legato, nulla si posava nel mio cuore e nella mia mente. Ciò che vivevo si tramutava immediatamente in vago ricordo, in qualcosa che forse era accaduto ma poteva anche essere frutto della mia immaginazione. Adesso mi dispiace, soprattutto se penso che per gli altri la mia presenza, le mie azioni, le mie parole avevano un significato importante. ( prima parte )

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