DIARIO

(racconto di Valeria Milazzo)


III Parte

27 gennaio, ore 05.15.

Mi ci è voluto un pò per liberarmene, ma finalmente ce l’ho fatta. Ho capito come fare, ormai. Il meccanismo è semplice: fingo di dormire, piegato su un fianco, aspettando che la guardia, accertatasi che mi sono addormentato, prosegua col suo giro notturno, quindi, nel giro di pochi minuti, mi calo sotto il letto e prendo il diario. Mi rimetto subito sotto le coperte, dando le spalle alla porta della camera, in modo che, tornato indietro, mi veda ancora dormiente. Detto questo, il gioco è fatto: lampadina accesa, fogli tra le mani, e potrei stare tutta la notte a leggere

“21 luglio 2009.

Non potevo desiderare di meglio. Avevo una vita invidiabile, perché sapevo viverla, sfruttarla al massimo. Così mi avevano insegnato, sin da bambino, che anche quando cadevo, l’importante era riuscire a rialzarmi. Mia madre riusciva sempre a sorridere, anche quando sembrava impossibile poterlo fare, trasmettendomi una pace ed una serenità che mi aiutavano ad affrontare qualsiasi cosa. Da piccolo, avrò avuto non più di sette anni, inciampai sulla soglia di casa, sbattei il volto contro i gradini e mi ruppi il naso. Lei non mi rimprovererò perché correvo, come qualsiasi altra madre avrebbe fatto. Aspettò che mi sollevassi sulle braccia, sebbene piangessi per il dolore, e dopo avermi asciugato gli occhi dalle lacrime, mi sorrise e disse: <<Che braccia muscolose che ha il mio bambino! Come avresti fatto se ti fossi rotto queste? Potrai sempre giocare, almeno!>> Subito risollevato dalle sue dolci parole, mi avvicinai a lei e la abbracciai, macchiandole di sangue la camicia bianca. Lei quindi si chinò, e mi sussurrò all’orecchio: <<Ti confido un’altra cosa: essere malati, significa aver diritto ad una dose di coccole extra! Questa macchia, per esempio, farò finta di non vederla! Ora pensiamo a questo nasino.>> Riuscì a farmi ridere, anche in quella situazione, come solo lei ha sempre saputo fare, ad annullare il resto del mondo, solo con un sorriso, ed una calda e rassicurante stretta. Non si può non amare la vita, se colei che te l’ha donata è un tale angelo.”

Senza nemmeno accorgermene, o poterlo controllare, un sorriso è scaturito spontaneo dalle mie labbra. Era da tanto, da troppo, che non sorridevo. Chissà come è mia madre, perché non è qui con me. Sicuramente mi avrà abbandonato, sarà stata lei a rinchiudermi in questo posto orrendo, per liberarsi di me. Meglio non pensare, non provare a ricordare. Ogni volta che lo faccio mi manca il respiro, mi sforzo immensamente, senza mai riuscire ad ottenere nulla. Nessun ricordo della mia vita.

“Mio padre è sempre stato un gran lavoratore, un uomo che avrebbe dato tutto per la sua famiglia, per garantirle il meglio che si potesse avere. I miei amici lo guardavano sempre come qualcosa di irraggiungibile, un uomo ricco e facoltoso, che vedevano sempre vestito con abiti eleganti, e lo ammiravano per la macchinona che doveva usare per lavoro, costretto a viaggiare in continuazione. Anch’io lo ammiravo, ma non per le vesti dell’imprenditore che era costretto ad indossare, né per i soldi che portava a casa, di cui mi insegnava a non fare mai abuso. Per me lui era l’uomo che non si preoccupava di sporcarsi la camicia per giocare a lanciarsi gavettoni col figlio, o a rotolarsi sull’erba, liberatosi finalmente dalla maschera che il suo ruolo lo costringeva a portare. Ma soprattutto, rimanevo estasiato per il modo in cui guardava mia madre. Rimanevo sempre come ipnotizzato da quello sguardo, dall’amore che ne traspariva, dalla gioia che riuscivo percepirne, racchiusa in me, frutto dell’immensità del sentimento che li univa.”

Una vita perfetta, insomma. Cosa ho io a che fare con lui? Come posso essere legato all’uomo perfetto io, senza vita, senza storia, senza ricordi, senza famiglia? Ancora domande, nessuna risposta. Forse dovrei dormire, provarci almeno.

28 gennaio, ore 14.30.

Sono crollato. Ho passato un altro giorno intero a dormire, senza toccare il diario. E per di più mi sono rifiutato di mangiare. Così rischio di insospettire i medici, di mettermeli contro, e non posso permettermelo. Si accorgeranno che non prendo più le pillole da giorni. Odio non avere le risposte che cerco, e sento che posso trovarle solo continuando questa folle lettura, ma ho paura di rimanere deluso non trovando nulla. Forse mi sto immedesimando troppo, forse è solo un diario, che non ha niente a che vedere con me. Dovrei leggerlo senza aspettarmi niente, solo per distrarmi, distrarmi da me.

“22 luglio 2009.

Era all’amore dei miei genitori che mi ispiravo, nel sognare una donna che potesse stare al mio fianco. Desideravo un amore come il loro, una persona che mi amasse quanto mia madre amava mio padre, che mi guardasse come loro si guardavano. Credevo nell’amore puro, fonte di immensa gioia, lontano da ogni compromesso, che potesse vincere qualsiasi altra cosa. Volevo diventare come loro, avere una famiglia da amare incondizionatamente, per cui lottare fino alla morte. Ma la scoperta dell’amore fu molto diverso per il giovane ragazzo che ero. Non lo aspettavo, sapevo che sarebbe piombato nella mia vita da un giorno all’altro, ma di certo non in quel modo. Lei mi è semplicemente apparsa, nel momento meno atteso, sconvolgendomi letteralmente la vita. Per uno di quei casi assurdi della vita, una mattina, proprio io, la persona più puntuale che abbia mai conosciuto, sono arrivato tardi a scuola. Ho sempre rifiutato di essere accompagnato da mio padre, amavo camminare di mattina, quando ancora il sole non si è innalzato, e la natura si sveglia pian piano, rinasce in un nuovo giorno, si prepara per scrivere nuove storie, portarne a compimento di vecchie, rinfrescata da quel lieve venticello di cui è possibile godere solo in quei brevi istanti, prima che il sole riscaldi il terreno. Come ogni mattina, mi sarei svegliato al suono della sveglia (ero troppo grande per il bacio della mamma, anche se lo avrei preferito di gran lunga), ed avrei passeggiato lentamente verso scuola, godendomi ogni fibra di quella meraviglia. Ma qualcosa andò storto: la mia sveglia decise di non suonare, e feci tardi. In ritardo anche per approfittare di un passaggio di mio padre, mi catapultai, senza aver fatto colazione, fuori casa, sfuggendo alle lamentele della mia premurosissima madre, che da sempre la mattina mi caricava con abbondanti colazioni. Rassegnatomi a non potermi godere del paesaggio, accelerai notevolmente il mio passo, guardando a stento dove poggiavo i piedi. Fu così che, durante la mia goffa corsa, mi scontrai letteralmente con un angelo. Fu decisamente il modo peggiore per farmi notare. La travolsi, o più probabilmente lei travolse me e tutta la mia vita. Da quel momento ho perfettamente capito perché si usa il termine “colpo di fulmine”: nello stesso istante in cui ci siamo scontrati, un profondo squarcio mi ha colpito in pieno petto. Pian piano ho scoperto cosa fosse l’amore, ma di certo non  ne seguì il sentimento di pace e gioia che attendevo, secondo il mio ideale di amore. Da quel momento in poi, mi sono sentito vuoto, come se una parte di me mi fosse stata strappata via. In quell’attimo, in cui il mio sguardo ha incrociato il suo, mi sono reso conto di essere incompleto, e di non poter mai avere la felicità, senza lei al mio fianco. Nemmeno mi ricordo le inutili ed imbarazzanti parole che spacciai per scuse, umiliato e terrorizzato dalla sensazione che mi aveva tramortito. In quello stesso istante, ho scoperto anche che c’era un modo per vincere quella solitudine che mi avvolgeva, era lei. Mi tranquillizzò immediatamente, dicendomi di non preoccuparmi, e mi sorrise dolcemente, con una tenerezza difficilmente descrivibile. Il mio cuore si riempì di gioia, di un calore mai provato prima, di una sensazione che, da quel giorno in poi, cercai disperatamente di ritrovare. Non andai a scuola, per la prima volta solo perché ero troppo preso da altro. La seguii con lo sguardo allontanarsi, restando impietrito dietro di lei. Oh, si! Era proprio amore il mio. Ma diverso da come lo avevo immaginato. Era mancanza, desiderio, vuoto che solo lei poteva colmare. Scoprii che abitava poco distante da me, e la cosa mi fu di grande aiuto. Sentivo il bisogno di stare meglio, torturato da quel sentimento che ancora non conoscevo. Qualche giorno dopo, la incontrai per caso, e fu come toccare il cielo con un dito. Ciò che mi colpì di più di lei, fu il modo in cui i suoi occhi mi sorrisero, risplendendo di una luce incredibile. Da allora, i nostri incontri si moltiplicarono, e non furono più solo fortuiti, ma cercati, voluti, almeno da me, calcolati e la voragine che si era creata nel mio petto si andò colmando, man mano che la distanza tra noi si assottigliava.”

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