Il colera e i moti del 1837 in Sicilia

(Pasquale Hamel)


Nel corso di un intervento in occasione dell’ultima edizione del premio Brancati Zafferana, uno dei massimi storici contemporanei viventi, l’amico professor Giuseppe Giarrizzo, tracciando un dotto profilo del Risorgimento in Sicilia, ne ha richiamato, come presupposto logico, un evento sul quale la storiografia ufficiale non si è soffermata più di tanto. Si tratta del caso della rivolta popolare del 1837, che interessò, in modo particolare, prima Palermo e successivamente, le province di Catania e Siracusa.
Per sostenere tale tesi, sicuramente Giarrizzo ha richiamato le tradizionali insofferenze dei Siciliani rispetto al sistema di potere che, soprattutto in quegli anni, i Borbone, scottati dalla rivoluzione del 1820/21, avevano instaurato nell’Isola. La condizione sociale in cui vivevano i Siciliani, già pesantemente colpiti dagli effetti della crisi generale, ma soprattutto economica, era infatti segnata da forti strette repressive, si trattava di un vero e proprio stato di polizia dove il semplice sospetto o qualche malevola diceria potevano addossare al malcapitato pesantissime sanzioni personali.
Nell’anno in questione, ai malanni quotidiani, se ne aggiunse un altro, inaspettato. Una devastante epidemia di colera, dopo aver fatto strage nel meridione d’Italia, le statistiche del tempo riportano il numero impressionante di circa duecentomila morti, si abbatté sulla città di Palermo si contarono oltre ventimila morti.
Vittima illustre del terribile morbo fu l’abate Domenico Scinà uno dei maggiori storici della Sicilia.
Da Palermo, l’epidemia in assenza di adeguate misure sanitarie di contenimento, non tardò a diffondersi nel territorio circostante funestando, soprattutto, la parte orientale dell’isola.
A fare le spese della terribile calamità furono specialmente le grandi città dove più facili erano le occasioni di contagio: le popolazioni di Messina, Catania e Siracusa, ne subirono le disastrose conseguenze.
La difficoltà di intervento per la mancanza di condizioni igieniche adeguate e la disorganizzazione delle amministrazioni pubbliche, che si dimostrarono, non all’altezza dell’emergenza, non consentirono di approntare quelle misure opportune ad arginare la terribile flagello.
A complicare le cose ci si mise pure la rabbia popolare, già eccitata dalle gravissime condizioni economiche e sociali dell’isola, che trovò ulteriore alimento nella situazione venutasi a creare a causa del colera. Tumulti scoppiarono a Siracusa, a Catania, a Biancavilla, a Paternò ed i altri centri minori, assumendo via via sempre più evidenti caratterizzazioni politiche: i liberali utilizzarono, con una certa spregiudicatezza la situazione venutasi a creare per, si potrebbe dire, portare acqua al proprio mulino.
“Quei liberali – scrive il Privitera nel suo Annuario catanese – colsero questa congiuntura per muovere il popolo a insorgere, e il concetto del colera-veleno fu quasi generalmente accettato in quel paese tanto rinomato per sapienza e per dottrina .”
In quell’occasione venne, infatti, sfruttata la debolezza culturale delle masse propalando, ad arte, notizie false su una presunta responsabilità dei Borbone, siamo agli untori di manzoniana memoria, nella diffusione dell’epidemia di colera. Fra i responsabili di tale impostura, basta ricordare, Mario Adorno, un avvocato siracusano liberale, che non si fece scrupolo di pubblicare di costringere il sindaco di Siracusa a pubblicare un proclama, cosiddetto “manifesto dei veleni” nel quale si accusava, senza mezzi termini il governo borbonico di essere responsabile della diffusione del colera.
In poche parole, i Borbone furono additati, agli occhi di un popolo assetato di giustizia, come i mandanti dell’epidemia e le autorità borboniche del territorio furono accusate di essere gli untori e di avere deliberatamente diffuso il morbo. Queste false insinuazioni eccitarono ancor di più la gente provocando, in alcune città, una vera e propria caccia all’uomo che fece numerose vittime innocenti.
Tuttavia la direzione della jacquerie, perché tale fu il movimento, sfuggì di mano anche a coloro che, come l’avvocato Adorno, pensavano di poterla governare indirizzandola verso obiettivi politici. Infatti, il popolo dei rivoltosi non rispose più a nessun capo agendo nel più irrazionale dei modi, riuscendo, dopo averne scacciato le truppe napoletane, ad impadronirsi della città di Catania e lasciandosi andare a violenze gratuite, manifestazioni di istinti primordiali che mettevano in luce la sostanziale arretratezza della società siciliana,.
Ma fu una vittoria di Pirro, il clima torbido che contraddistinse i tumulti, provocò lo sdegno generale e non conciliò ai rivoltosi le necessarie solidarietà.
La mancanza di un disegno strategico, l’assenza di guide autorevoli – fatta eccezione del patriota Salvatore Tornabene non vi furono figure di spicco capaci di assumere la leadership della rivolta – e la confusione generale di quei giorni, non permise di consolidare i risultati ottenuti e di approntare una resistenza adeguata per fermare l’attendibile reazione dei napoletani. Proprio a Catania, si organizzò perfino un moto controrivoluzionario sostenuto dall’aristocrazia locale, con a capo il marchese di Sangiuliano, che riuscì parzialmente a ripristinare l’autorità legittima.
Dopo un primo tempo di incertezza, Ferdinando II, anche su sollecitazione degli aristocratici catanesi impauriti della piega che il movimento aveva assunto, decise di non aspettare più e di ristabilire l’ordine.
Ne fu incaricato il generale Del Carretto a cui furono concessi poteri eccezionali.
Lasciata Napoli, la forza di repressione borbonica prese terra a Catania, accolta dalla maggioranza dei cittadini, i borbonici furono infatti accolti dalla gran parte dai catanesi, come liberatori.
In pochissimo tempo l’ordine fu ristabilito ovunque.
Del Carretto approfittò dei suoi poteri dimostrando una particolare ferocia. Moltissimi rivoltosi vennero arrestati e molti di essi pagarono con la vita quel temerario aborto rivoluzionario. Fra i condannati che pagarono con la vita, ci fu anche l’avvocato Adorno che, senza dubbio, fu uno dei maggiori responsabili di una pagina tanto poco onorevole della storia siciliana.
La fine della rivolta, per uno strano scherzo del destino, coincise con la fine della stessa epidemia offrendo ai Borbone una casuale legittimazione positiva.
Forse la gravità di quei fatti che appunto non onorano la memoria, forse per ragioni a cui la storia non sa dare risposte, il fatto è che di quei drammatici episodi i Siciliani hanno cancellato il ricordo.

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