DIARIO

(racconto di Valeria Milazzo)


V Parte

31 gennaio 2010, ore 00.37.
Mi sono stati alle calcagna tutto il giorno. Forse si sono accorti che ho smesso di seguire la loro cura. Probabilmente il mio comportamento li ha parecchio insospettiti. Sto molto più per le mie, sono molto meno accondiscendente, durante le loro stupide sedute di gruppo me ne sto in disparte, e quasi non parlo più, neanche col dottor Bloomsbury che mi viene personalmente a controllare ogni giorno. Me ne sono accorto anch’io: esaurito l’effetto delle loro medicine (ci saranno anche calmanti?) sono diventato molto più scontroso. Sebbene cerchi in tutti i modi di non darlo a vedere, non aspetto altro che il momento in cui mi lascino in pace, per poter finalmente proseguire la mia lettura. Oggi non mi è stato possibile, perché sicuramente se ne sono accorti, ed hanno deciso di intensificare i controlli. Per la prima volta in questo periodo, mi è sembrato che si siano preoccupati seriamente riguardo alla mia salute, mentale e fisica. Ma questa improvvisa premura non mi ha minimamente toccato. Anzi, mi infastidisce. Mi hanno già privato di tutto. La mia esistenza è vuota ed insignificante, priva di senso. Di certo non può essere considerata vita. Adesso vogliono anche privarmi dell’unica cosa che la renda quanto meno sopportabile? No, non posso accettarlo.
“24 luglio 2009.
Una vita perfetta, penserai. Più semplicemente, me la godevo giorno per giorno. Le difficoltà non mancavano, ma le avrei sapute affrontare, con un ottimismo ed una positività che mi aiutavano a non perdere mai il mio sorriso. E adesso c’era lei, che aveva reso la mia vita completa. Era perfetta per me, l’unica che potesse starmi accanto, come se mi fosse stata cucita addosso, per darmi tutto ciò che non avevo, e che avevo sempre desiderato. Con lei potevo condividere tutto, essere me stesso. Se mi fossi fermato un attimo, in uno dei nostri momenti, quelli che nessuno avrebbe mai potuto portarci via, ad ascoltare il silenzio che ci avvolgeva, avrei sentito i nostri cuori battere all’unisono, fermarsi per un istante quando i nostri nasi si sfioravano, per poi accelerare nel momento in cui le nostre labbra si univano. Quando lei sorrideva, sorridevo anch’io, quasi istintivamente, con il cuore avvolto da un calore indescrivibile, un misto di gioia, pace, amore. Era il mio paradiso. Ma la vita delle volte ti delude, distrugge tutto ciò che hai costruito. Tutto.”
Nello stesso istante in cui il mio sguardo le ha incontrate, queste parole mi hanno trafitto, più violente di un colpo in pieno petto, gelide, come spilli conficcati nella mia carne. Avevo i brividi, e sentivo una strana sensazione di angoscia farsi largo, pian piano, dentro di me. Letteralmente terrorizzato, ho preferito posare tutto e provare a dormire, ma ovviamente senza alcun risultato. Adesso vorrei continuare, capire a cosa quelle parole si riferissero, ma ormai è troppo tardi. La ronda di stanotte sarà di sicuro particolarmente attenta ai miei movimenti, e non posso farmi scoprire. Mi toccherà dormire davvero, almeno per stanotte, domani si vedrà.

1 febbraio, ore 14.00.
Sono in lotta aperta con questi dannati medici. Non ne posso più, davvero! Non mi lasciano più nemmeno il tempo di respirare. Mi sono chiuso in bagno, per protesta. Non sono riuscito a leggere nemmeno una pagina del diario oggi, a causa dei loro soffocanti controlli. Almeno così avrò un po’ di tempo per me, per scrivere in pace. Possono stare qui fuori a sbraitare per quanto vogliono, io non esco. Stamattina ho avuto una reazione parecchio violenta, lo ammetto. Ma mi ci hanno portato loro. Hanno addirittura controllato se ingoiassi o meno le pillole, ed ho dovuto obbligatoriamente farlo. Ma subito dopo ho cominciato ad urlar loro contro, a dire che così non mi aiutano, che odio questo posto e tutti loro, che non voglio parlare con nessuno. Hanno provato in tutti i modi a farmi calmare, ma ero proprio furioso. Quando mi sono reso conto, percependo una strana occhiata tra un infermiere e un medico, che mi avrebbero somministrato dei calmanti, mi sono chiuso in bagno. Allora hanno provato a tranquillizzarmi, a dire che non mi avrebbero fatto niente, che non devo fare così e vederli come dei nemici, perché loro vogliono solo il mio bene, che io abbia una vita felice. Ma ho risposto che non me ne faccio nulla del loro interesse, che la mia vita non ha senso, che la mia non è una vera vita. A questo punto, per la prima volta da quando ricordo, ho sentito pronunciare il mio nome. Dicevano “calmati, Leo, non fare così”, o qualcosa di simile. Non sono riuscito a trattenere le lacrime, e sono crollato sul pavimento. “Come potete aiutare qualcuno che non conosce neanche il suo nome?”, ho domandato io, in preda alla disperazione. Loro hanno continuato a chiamarmi, a dirmi che il mio nome era Leo Stevens, e che presto lo avrei ricordato, che avrei ricominciato a vivere. La situazione è rimasta invariata per ore, tra urla, pianti, ed innumerevoli tentativi di farmi uscire. Io sono rimasto qui, accucciato davanti alla porta, a scrivere, senza nemmeno rispondere più alle loro sollecitazioni. E da qui non me ne vado.

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