Il dialetto siciliano attraverso i secoli e la poesia popolare: III parte

(Tommaso Aiello)

L’unità d’Italia e l’affermazione del toscano quale lingua dei sudditi del Regno, avrebbero voluto-dovuto decretare la scomparsa dei dialetti, di tutti i dialetti della penisola;siciliano compreso dunque, malgrado il  suo plurisecolare passato di storia e di poeti,quali Antonio Veneziano,Giovanni Meli, Domenico Tempio per citarne solo alcuni, che l’avevano celebrato. E invero, esso sembrò smarrirsi. Parve quasi soccombere, salvo ritrovarsi, a fine ottocento, col Verismo prima e con autori del calibro di Nino Martoglio successivamente. Col Novecento poi,quanto più la funzione della comunicazione andò ripiegando in favore dell’italiano,tanto più se ne andò estendendo l’impiego letterario,in particolare nella poesia. Cosicchè se da un canto il dialetto siciliano è, ancora oggi, più vitale che mai, d’altro canto esso è relegato al ruolo pressocchè esclusivo di lingua letteraria, lingua dei poeti; di lingua, ovverossia,volta al perpetuarsi di un patrimonio di cultura, che altrimenti rischia seriamente di estinguersi. Tale fenomeno ha generato, nel secolo appena trascorso, degli autori di assoluto pregio, tra i quali Ignazio Buttitta è di certo il più universalmente noto e anche Giovanni Formisano, l’autore di “E vui durmiti ancora”, è assai conosciuto. Altri, parimenti degni e tuttavia meno fortunati, pazientemente aspettano che qualche spirito illuminato,un giorno o l’altro, li “scopra”. Sì,è vero, tanta gente ha dominato la Sicilia, ma non lo spirito siciliano, che è rimasto libero da ogni dominazione e imposizione. I siciliani hanno preso le lingue che gli stranieri portarono e imposero, le trasformarono e le resero siciliane sempre,come oggi ci appaiono. Questo comportamento,come tanti altri, ha fatto sì che in qualche modo siano stati i siciliani a dominare i conquistatori tenendo salda la propria identità di apparteneza. Nei metri della poesia popolare tramandata oralmente,i poeti del popolo esprimevano quel vario mondo sentimentale, le ideologie, quella vasta cultura popolare con i suoi temi sociali, religiosi, morali, politici, largamente condivisi fra le masse popolari. Di questo sentire popolare, di questa”concezione del mondo e della vita”per dirla con Gramsci, il poeta popolare era portavoce e rielaboratore, organico come era a quel mondo: si trattava di contadini o artigiani,o anche di piccoli borghesi, in grado di poetare alla maniera della tradizione, dotati di grande memoria. Sì, perché la memoria, ha nella poesia popolare il compito spettante alla scrittura nella letteraria; cioè conserva, diffonde e accomuna non solo le idee, ma anche le forme e quindi gioca un ruolo creativo, proprio per il principio che la ricomposizione di frammenti sparsi è di per se stessa una ricerca,un atto ricreativo, insomma un’invenzione. Il Pitrè a più riprese si occupò di questi poeti popolari noti o sconosciuti:”analfabeti,che dotati di viva fantasia, di splendida immaginazione e di pronta inventiva hanno cantato finora in Sicilia ciò che più li ha colpiti:l’amore, la religione, i fatti tristi e lieti, pubblici e privati del giorno”. Il mito romantico della poesia, però,come creazione collettiva, spontanea e non riflessa, la “naturpoesie”, per dirla coi tedeschi, ha condizionato gli studi a lungo: è un mito da sfatare.
La trasmissione della poesia popolare può essere collettiva, ma la creazione è sempre personale e individuale. Dietro ad ogni componimento c’è sempre un essere pensante col suo cuore, il suo cervello, i suoi sentimenti, il suo mondo. Pertanto nella poesia popolare, i siciliani hanno documentato la loro vita di tutti i giorni, la vita quotidiana del popolo; essa è diventata un documento storico e filosofico, morale e religioso.

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