LA DONNA CHE PARLAVA AI LIBRI

(Dante Maffìa)

SABINELLO DEI VENTICONTRARI, Quattro amici, Scalea, Edizioni del Diavolo Biondo, 1998

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( seconda parte)

Abbiamo deciso di parlare di donne. Delle nostre esperienze, dei nostri desideri, delle oscure trame della nostra anima quando siamo soli e ci prende il magone per un seno di donna bellissima, per un culo che sembra il mappamondo più perfetto. Dico mappamondo non a caso, perché in un bel culo c’è la geografia dell’universo, la varietà della poesia. Qui poesia sta per perfezione, sensualità, stupore.

Sembriamo degli esaltati. I nostri racconti hanno il tono della goliardia e la spudoratezza degli scalmanati. Nomi di donne si accavallano, di ognuna facciamo un rapido ritratto, di ognuna diciamo le qualità che ci hanno attratto e stretti nelle grinfie. È un gioco fino a un certo punto, si tratta essenzialmente di un ripasso, un affondo nei ricordi. Quel che ci meraviglia è il catalogo che ne viene fuori. Innamoramenti, scopate radiose, accensioni irrazionali fino a quando non hanno ceduto. Qualche volta abbiamo anche preso la scuffia, ma quasi sempre è stato desiderio dei corpi che adesso nelle nostre parole assumono una dimensione mitica, come se fossero appartenuti a statue che si sono dissolte.

Rino parla di un antico amore che la lontananza ha distrutto e reso vagamente mitico. Nelle sue parole c’è il rimpianto, l’accoratezza, addirittura. Forse non dovevamo mettere su questo teatrino che ci vede in confessione. Chissà, potrebbe accendere delle micce difficile poi da spegnere. Ma andiamo avanti. Rino è quasi alle lacrime, ama sua moglie, ma avverte che con l’altra ha perduto una occasione da romanzo. Si esprime proprio così.
Sabino invece rimugina attorno a parole pensate e non dette; su donne che gli sono passate dentro il cuore e non ha avuto il coraggio di viverle. Segnali di un viaggio in cui non è voluto entrare per evitare di mettersi in gioco. La pienezza dell’amore con la moglie gli ha proibito di andare oltre e l’ha castrato e adesso la sua vita sembra ingombra di fantasmi, di passi furtivi che compiono una danza effimera e perversa.

C’è, nelle sue parole, una indignazione per sè stesso, un grido sordo e lungo che non trova la radura adeguata per posarsi. Non si sa bene se è un grido di guerra o di resa, se una promessa di riscatto e di mutazione in atto o la chiusura al divenire. Le parole hanno dei rintocchi torbidi, delle amarezze assennate e lievi che invocano tenerezza.

Lo so, alla fine della serata finiremo per ubriacarci e piangere. Ma ormai siamo in ballo e non ci fermiamo.

Così Giorgio racconta dei suoi valzer sfacciati con le tante partner. Non ha mai amato. Qualcosa glielo ha sempre impedito, anche quando era preso da una donna che gli dava le soddisfazioni più strabilianti. In Giorgio tutto si stempera nell’atto sessuale, nella scintilla che arriva con l’orgasmo. Il suo assoluto è nel momento in cui il corpo della donna aderisce all’armonia del suo, con piccole perversioni. Una maniera di salvaguardarsi dallo strapiombo che diversamente gli arriverebbe addosso. Giorgio comincia ogni volta daccapo, ogni orgasmo è un capitolo della sua vita, ma non sa quando sarà fuori dalle tentazioni che ogni attimo lo soccorrono.

Io vorrei stare zitto. Non so da che parte cominciare. I loro racconti mi hanno creato un certo smarrimento. Troppe domande si sono affollate mentre parlavano, e sono domande immense e dolorose. Ho mai amato anch’io? Le donne che ho sfiorato, che ho posseduto, che mi hanno posseduto, che cosa sono diventate in me? Niente. Questa è l’angoscia, niente di niente. E allora mi chiedo perché sono stato sempre teso a cercarle, e a cercare in esse le ragioni del vivere. C’è qualcosa di malvagio e di orribile nei nostri racconti. Ne viene fuori un ritratto della donna che sembra una marmellata di fagioli. Che indecenza! E dire che siamo scrittori, poeti. La verità è che non siamo cresciuti, che non siamo stati capaci di confrontarci con la donna, non siamo stati capaci di trovare una ragione autonoma, una verità che sia nostra e solo nostra per farci confrontare. Ci siamo lasciati prendere dal desiderio, siamo entrati nel tunnel dello spasimo e abbiamo finito per essere succubi di occhi, di mani, di seni, di bocche, di cosce e mai di anime. È il nostro limite, ce lo fa notare Sabino, sempre pronto alle analisi. Intanto due bottiglie di vino le abbiamo fatte fuori. Continueremo tutta la serata a fare baldoria in nome delle donne. Siamo dei derelitti che si sono imbarcati nei ricordi e fra poco canteremo. Non è escluso che poi andremo a puttane.

Sabino sogna di franare sul corpo di una megera che sappia cantare nenie dolcissime. La troveremo, non ci sono dubbi. E l’affideremo alle sue mani esperte, così finalmente il canto della libertà fiorirà sulle sue labbra.

“Donna, mistero senza fine e bello”.

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