Tra arte e cultura al loggiato di Palazzo Mazzarino

(Carmelo Fucarino)

Oltre quel portone, che raramente si spalancava a sguardi estranei, si spingevano i miei occhi negli anni della mia giovinezza, quando abitavo di fronte al Collegio S. Rocco. Poca parte si intravedeva del cortile, che lasciava solo fantasie di cavalli e di pompose carrozze, di dame dai gonfi vestiti e di candide o bionde parrucche. Ed era rimasta quella corte nel fascino del mistero, la certezza delle cavallerizze a pian terreno, delle sale da ballo al piano nobile.
Perciò varcare quella soglia è stato per me un tuffo al cuore, nell’illusione di antiche visioni. E la realtà del cortile, con le mura spoglie, la galleria intorno, sorretta ora da colonne, ora da pilastri, l’asimmetria della prospettiva, sul lato destro entrando tutta una vetrata che lascia intravedere due stucchi che coprono il muro, di fronte il loggiato con colonne, le maestose porte a pianterreno, probabilmente delle stalle, tutto mi ha lasciato un po’ deluso.
Anche l’atrio tappezzato di sedie di plastica, tutte uguali e ben ordinate, ha acquistato una diversa fisionomia, il luogo non luogo della cultura delle pubbliche perfomance. Anche la pedana mi è sembrata fuori posto. Comprendo comunque che per chi non lo ha vissuto nell’immaginazione, il luogo può riservare sempre le sue suggestioni.
La prima parte. Sul palco due sedie e l’incontro con l’autore in trasferta. La padrona di casa del salotto con la sua consueta verve e le sue domande a provocare risposte, la brava Gabriella Maggio. L’autore uno scrittore sui generis, pilota in cassa integrazione con “16.000 ore di volo”, autore della sezione consigli di volo del dismesso inserto Viaggi di La repubblica, diventati libro, Allacciate le cinture – I segreti del volo raccontati da un pilota, edito da Einaudi, e titolare in rete di un Manuale di volo. Portale di cultura aeronautica. Il dialogo si è svolto con molta naturalezza e le risposte sono riuscite a togliere almeno un tipo concreto di “paura di volare”, rassicurando tutti sul “punto di non ritorno” o sulla paura degli Ufo. Tanta fortuna al genere letterario.
Seconda parte. Onore al merito a questo eccezionale gruppo di undici strumentisti d’archi, gli eccezionali tre primi violini, che hanno trovato giusto contrappunto con i tre secondi, le due viole e i due violoncelli e il contrabbasso, ben amalgamati e concordi, un fortunato gruppo di archi, Gliarchiensemble. Diciamo giovanissimi sia di età sia di creazione e attività (2005 a Bologna), ma ricco di tappe, da Sydney ad Hammamet, dalla Svizzera all’America latina. Peccato che non erano presenti i due loro due dischi.
La scelta del programma è stata esemplare, perché ha dato al pubblico la possibilità di seguire lo sviluppo della musica per archi (si osservi le date di vita degli autori) Ad apertura piccola e deliziosa, quasi un concerto da camera, la sinfonia per archi in mi maggiore di Antonio Vivaldi (1678-1742), quando il genere era ancora in fasce e la struttura non aveva assunto la forma imposta da Mozart e poi arricchita e portata all’esplosione con la celebre Nona, dove i quattro tempi e la grandiosa orchestra non bastarono più ed esplose la voce corale nel celebre An die Freude (Inno alla gioia) di Friedrich Schillder di (l’appello, ora inno europeo, O Freunde, nicht diese Töne ! /Sondern laßt uns angenehmere anstimmen / und freudenvollere !). A seguire, la prima sinfonia (1759) di Franz Joseph Haydn (1732-1809), ancora in soli tre tempi, la prima prova dell’autore, un Presto, in cui le viole esprimono la loro autonomia, seguito da un Andante in sol maggiore e dal Presto di ripresa. Poi la Sinfonia n. 10 in si minore per archi, MWV n. 10 (18 maggio 1823) di Felix Mendelssohn-Bartholdy (1809-1847), del quale il classico Goethe volto al romanticismo disse: «Ho ancora molto da imparare da te e dal tuo talento». Evidente è nella partitura l’insegnamento della tradizione classica mozartiana e la presenza ancora della forma sonata, lo sviluppo addirittura in soli due tempi,  un Adagio iniziale, meditativo e cantabile, al quale si oppone il brillante Allegro, spigliato e sicuro.
Che dire della seconda parte del concerto con il genere diverso della serenata da camera, la famosissima Serenata per archi in Mi maggiore, Op. 22, del ceco Antonin Dvořák (1841-1904), composta in sole due settimane nel maggio 1875? Essa aveva tutti i titoli per dimostrare la bravura orchestrale degli interpreti e per mandare in delirio il pubblico di gusti eterogenei. Si sviluppa nella canonica tripartizione A-B-A (mi coinvolge il richiamo alla tripartizione stesicorea, adottata dai cori del teatro greco, con strophé, antistrophé, epodos) del Moderato iniziale, cantabile, del Tempo di Valse tessuto su un walzer lento, dell’umorismo dello Scherzo: Vivace, la forma lirica e nostalgica del Larghetto, per concludere nella forma sonata esuberante e travolgente del Finale: Allegro vivace.
Scelte ed esecuzione veramente esemplari, degnamente concluse dall’entusiasmante prova di raffinatezza stilistica e di preziosismo con il famosissimo tema del bis.
Tutto in nome del service del Lions Club Palermo dei Vespri con una finalità in sintonia con il programma della serata, il recupero e il restauro di sculture di un’opera d’arte preziosa e abbandonata, la chiesa di San Matteo al Cassaro.

Tra arte e cultura
al loggiato di Palazzo Mazzarino
(Carmelo Fucarino)

Oltre quel portone, che raramente si spalancava a sguardi estranei, si spingevano i miei occhi negli anni della mia giovinezza, quando abitavo di fronte al Collegio S. Rocco. Poca parte si intravedeva del cortile, che lasciava solo fantasie di cavalli e di pompose carrozze, di dame dai gonfi vestiti e di candide o bionde parrucche. Ed era rimasta quella corte nel fascino del mistero, la certezza delle cavallerizze a pian terreno, delle sale da ballo al piano nobile.
Perciò varcare quella soglia è stato per me un tuffo al cuore, nell’illusione di antiche visioni. E la realtà del cortile, con le mura spoglie, la galleria intorno, sorretta ora da colonne, ora da pilastri, l’asimmetria della prospettiva, sul lato destro entrando tutta una vetrata che lascia intravedere due stucchi che coprono il muro, di fronte il loggiato con colonne, le maestose porte a pianterreno, probabilmente delle stalle, tutto mi ha lasciato un po’ deluso.
Anche l’atrio tappezzato di sedie di plastica, tutte uguali e ben ordinate, ha acquistato una diversa fisionomia, il luogo non luogo della cultura delle pubbliche perfomance. Anche la pedana mi è sembrata fuori posto. Comprendo comunque che per chi non lo ha vissuto nell’immaginazione, il luogo può riservare sempre le sue suggestioni.
La prima parte. Sul palco due sedie e l’incontro con l’autore in trasferta. La padrona di casa del salotto con la sua consueta verve e le sue domande a provocare risposte, la brava Gabriella Maggio. L’autore uno scrittore sui generis, pilota in cassa integrazione con “16.000 ore di volo”, autore della sezione consigli di volo del dismesso inserto Viaggi di La repubblica, diventati libro, Allacciate le cinture – I segreti del volo raccontati da un pilota, edito da Einaudi, e titolare in rete di un Manuale di volo. Portale di cultura aeronautica. Il dialogo si è svolto con molta naturalezza e le risposte sono riuscite a togliere almeno un tipo concreto di “paura di volare”, rassicurando tutti sul “punto di non ritorno” o sulla paura degli Ufo. Tanta fortuna al genere letterario.
Seconda parte. Onore al merito a questo eccezionale gruppo di undici strumentisti d’archi, gli eccezionali tre primi violini, che hanno trovato giusto contrappunto con i tre secondi, le due viole e i due violoncelli e il contrabbasso, ben amalgamati e concordi, un fortunato gruppo di archi, Gliarchiensemble. Diciamo giovanissimi sia di età sia di creazione e attività (2005 a Bologna), ma ricco di tappe, da Sydney ad Hammamet, dalla Svizzera all’America latina. Peccato che non erano presenti i due loro due dischi.
La scelta del programma è stata esemplare, perché ha dato al pubblico la possibilità di seguire lo sviluppo della musica per archi (si osservi le date di vita degli autori) Ad apertura piccola e deliziosa, quasi un concerto da camera, la sinfonia per archi in mi maggiore di Antonio Vivaldi (1678-1742), quando il genere era ancora in fasce e la struttura non aveva assunto la forma imposta da Mozart e poi arricchita e portata all’esplosione con la celebre Nona, dove i quattro tempi e la grandiosa orchestra non bastarono più ed esplose la voce corale nel celebre An die Freude (Inno alla gioia) di Friedrich Schillder di (l’appello, ora inno europeo, O Freunde, nicht diese Töne ! /Sondern laßt uns angenehmere anstimmen / und freudenvollere ! ). A seguire, la prima sinfonia (1759) di Franz Joseph Haydn (1732-1809), ancora in soli tre tempi, la prima prova dell’autore, un Presto, in cui le viole esprimono la loro autonomia, seguito da un Andante in sol maggiore e dal Presto di ripresa. Poi la Sinfonia n. 10 in si minore per archi, MWV n. 10 (18 maggio 1823) di Felix Mendelssohn-Bartholdy (1809-1847), del quale il classico Goethe volto al romanticismo disse: «Ho ancora molto da imparare da te e dal tuo talento». Evidente è nella partitura l’insegnamento della tradizione classica mozartiana e la presenza ancora della forma sonata, lo sviluppo addirittura in soli due tempi,  un Adagio iniziale, meditativo e cantabile, al quale si oppone il brillante Allegro, spigliato e sicuro.
Che dire della seconda parte del concerto con il genere diverso della serenata da camera, la famosissima Serenata per archi in Mi maggiore, Op. 22, del ceco Antonin Dvořák (1841-1904), composta in sole due settimane nel maggio 1875? Essa aveva tutti i titoli per dimostrare la bravura orchestrale degli interpreti e per mandare in delirio il pubblico di gusti eterogenei. Si sviluppa nella canonica tripartizione A-B-A (mi coinvolge il richiamo alla tripartizione stesicorea, adottata dai cori del teatro greco, con strophé, antistrophé, epodos) del Moderato iniziale, cantabile, del Tempo di Valse tessuto su un walzer lento, dell’umorismo dello Scherzo: Vivace, la forma lirica e nostalgica del Larghetto, per concludere nella forma sonata esuberante e travolgente del Finale: Allegro vivace.
Scelte ed esecuzione veramente esemplari, degnamente concluse dall’entusiasmante prova di raffinatezza stilistica e di preziosismo con il famosissimo tema del bis.
Tutto in nome del service del Lions Club Palermo dei Vespri con una finalità in sintonia con il programma della serata, il recupero e il restauro di sculture di un’opera d’arte preziosa e abbandonata, la chiesa di San Matteo al Cassaro.

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