Lucia o della pazzia d’amore

(Carmelo Fucarino)

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Una serata eccezionale al teatro Massimo al gran pieno e con una valanga di applausi deliranti da parte degli ammiratori. La Lucia è certamente un’opera che coinvolge e trascina per la drammaticità dell’amore contrastato e folle. William Orlandi, scenografo di grande esperienza, ha voluto ricreare la cupa atmosfera della Scozia ai tempi della regina Anna (1702-1714), il tenebroso castello del romanzo storico nero di Walter Scott, La Sposa di Lammermoor (The Bride of Lammermoor), pubblicato nel 1819 nella terza serie dei Tales of my Landlord assieme ad A Legend of Montrose. Secondo Scott, si trattava di un episodio realmente accaduto nella famiglia scozzese dei Dalrymple. Difficile verificare l’asserzione. Quel che è certo, la peripezia, già narrata nel romanzo alessandrino, riviveva nella discordia dei Capuleti e dei Montecchi (Dante, Purg. VI, 105) e dell’infelice fanciulla Giulietta. Poi da Bandello (1554), in numerose traduzioni, era approdata alla lacrimevole versione shakespeariana (1594-97). Sul racconto di Scott alcuni anni dopo (1835) il più grande e geniale poeta di opera italiano (il Trovatore di Verdi fu l’ultima prova prima di morire), il napoletano Salvatore Cammarano, preparò i fluidi ed elegiaci versi per il bergamasco Gaetano Donizetti (1797-1848), che ne fece l’opera sua più celebre e psicologicamente complessa. Rappresentata in prima assoluta al San Carlo di Napoli il 26 settembre 1835 con Fanny Tacchinardi, ebbe una edizione francese al Théâtre de la Renaissance di Parigi nel 1839.

Dalla tragedia degli equivoci che aveva intrecciato i destini di Romeo e della bambina Giulietta, burlati da un contrattempo, si è passati al dolo per l’egoismo del fratello che vuol preservare la sua posizione sociale per mezzo del consueto matrimonio d’interesse attraverso il sacrificio della sorella. Ma c’è qualcos’altro che rende Lucia un personaggio nuovo, la catastrofe amorosa della pazzia che era stata esclusiva prerogativa maschile, dal celebre sconvolgimento di Eracle fino alla furia che tutto travolge dell’Orlando ariostesco. Diversa pure dalla Fedra classica che tramava lucidamente la vendetta. Non sarà il caso a chiudere la vita di Lucia, ma un’allucinata lettura di falsi eventi, il tradimento nella falsa lettera, la rivelazione del matrimonio. La scena della pazzia è la pagina più originale e sublime, altamente tragica del teatro universale. Ancora più tragica perché appare quasi un’angosciosa premonizione del destino dell’autore che, rinchiuso nel manicomio di Ivry, ne uscì solo qualche mese prima della morte, per quel tarlo oscuro della sifilide che lo corrose a soli cinquantuno anni nel pieno della sua instancabile e vorticosa attività.

Straordinario l’Enrico, il baritono Nicola Alaimo, giovane (del 1978) e di grande esperienza teatrale, ovazioni deliranti e lunghissime per il soprano Désirée Rancatore, che, si può dire, giocavano in casa. Dal debutto a Salisburgo, al Covent Garden, alla riapertura della Scala, la ragazza di Palermo (del 1977) vi ritorna con un suo cavallo di battaglia, la Lucia che dopo l’interpretazione al teatro Donizetti di Bergamo nella stagione 2006-07, la ha visto nei teatri di Oviedo, Bologna e Zurigo. Perciò l’Edgardo del pur bravo tenore Giuseppe Gipali ha potuto raccogliere le briciole, come pure il Raimondo del pur credibile basso Deyan Vatchkov.

D’altronde Lucia è il personaggio sempre imperante sulla scena a cominciare dalla cavatina Regnava nel silenzio, poi nel duetto con Edgardo Sulla tomba che rinserra, in quello con Enrico Il pallor funesto, fino al vorticoso sestetto Chi mi frena in tal momento! Gigantesca la sua personalità nella complessa “Scena ed Aria” della follia, con la lunga cadenza del flauto. Comincia con il recitativo in do minore ed aria Eccola! […] Il dolce suono / Mi colpì di sua voce, si consola nel Larghetto del Cantabile Ardon gl’incensi […] Alfin son tua, si solleva nell’Allegro del tempo di mezzo S’avanza Enrico, chiude nello svanimento del Moderato della cabaletta Spargi d’amaro pianto. C’è qualcuno che si ricorda della bellissima Anna Moffo nelle vesti di Lucia?

Il direttore Stefano Ranzani ha colto lo spirito della musica di Donizetti e la sua furia tragica che in certe parti preparava la passionalità del romanticismo e di Verdi, in altre riprendeva certi fraseggi rossiniani (su invito di Rossini scrisse il Marin Faliero per il Théâtre des Italiens di Parigi), in qualche atmosfera la malinconia di Bellini, il caro amico per il quale scrisse la Messa da Requiem. Sempre attenta e misurata la coreografia di Luciano Cannito.

In questa orrenda tragedia, mi si perdoni, diventa comica una incauta innovazione scenica. Passi che nella scena finale Edgardo si spari un colpo di pistola (nel libretto «trae rapidamente un pugnale e se lo immerge nel cuore»), ma come si fa a sanare l’aporia di Enrico ed Edgardo armati di pistola, in mezzo ai cavalieri armati di archibugi, mentre Raimondo implora in nome di Dio: «deponete l’ira e il brando» (Atto I, scena VI, tempo di mezzo). Era proprio scenicamente più efficace il colpo di pistola?

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(foto per gentile concessione dell’Ufficio stampa del Teatro Massimo)

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