Quid ergo est tempus?

(Carmelo Fucarino)

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Nell’omelia della sua Messa dei 101 anni mons. Carmelo Amato esordì con questa celebre e problematica domanda che Agostino poneva nel libro XI (cap. 14, 17) delle sue inquietanti Confessiones. E come il santo dei dubbi, delle incertezze e delle angosce esistenziali, il santo che Petrarca volle interpretare nel suo Secretum, egli ne ripeteva con la sua voce assillata la risposta che apriva abissi di mistero: «Se nessuno me lo domanda, lo so. Se volessi spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so» (Si nemo ex me quaerat, scio: si quaerenti explicare velim, nescio). È incommensurabile l’emozione e il turbamento che mi colse nel risentire questa arcana verità da un uomo che ha vissuto profondamente ed intensamente il tempo, nelle letture dei classici, soprattutto latini e con profondità Virgilio e Cicerone, che non può fare a meno di citare attraverso una riflessione sulla vecchiaia dal Cato Maior. De senectute, il grande vecchio antico. Eppure l’analisi si approfondiva con la successiva precisazione: «Tuttavia con sicurezza affermo di sapere che, se niente passasse, non vi sarebbe un tempo passato e se niente si approssimasse non vi sarebbe un tempo futuro, se niente vi fosse, non vi sarebbe il tempo presente.

Dunque quei due tempi, passato e futuro, come sono e quando, il passato non è più e il futuro non è ancora? Il presente poi, se fosse sempre presente e non passasse al passato, non sarebbe tempo, ma eternità». Un’estrema paura mi colse, quando si tolse gli occhiali, si passò la mano sugli occhi e il bisbiglio concitato della sua riflessione «cosa succede alla retina?». Certamente il faro del fotografo aveva turbato la sua percezione della luce. Cercò ancora di proseguire con la ripresa agostiniana sulle tre fasi del tempo: «Questo poi è ora chiaro ed evidente, né ci sono tempi futuri né passati, né propriamente si dice, ‘tre sono i tempi, passato, presente e futuro’, ma forse propriamente si dovrebbe dire, ‘tre sono i tempi, il presente del passato, il presente del presente, il presente del futuro’. Infatti questi tre tempi sono in qualche modo nell’animo, né li vedo altrove: il presente del passato è la memoria, il presente del presente la visione diretta, il presente del futuro l’attesa (expectatio)» (20, 26). Per concludere: «Per cui mi sembrò che nient’altro fosse il tempo che una estensione (distensio); ma di cosa non so, eppure sarebbe strano se non lo fosse dell’animo stesso» (26,33). Poi dopo tentativi di ricordarci le epigrafi delle meridiane e le riflessioni sul tempo e la morte, la rinunzia e la lettura della sua omelia da parte del giovane arciprete, voce e sentimento estranei. Non c’erano il suo impeto e la sua passione, anche se si librava in immagini di meridiane solari e di tremendi moniti a lodare la vita nel misurare il tempo. Quel gaudio immenso di vivere che è esploso nei doni di due bambine, un mazzo di fiori vivi e un palloncino a forma di fiore, e nel canto ritmato di lode a Dio che ha inondato la sua chiesa della parrocchia di S. Giovanni, nel giorno della celebrazione della festa del Martirio di S. Giovanni, la voce clamante nel deserto. E l’inno gioioso alla vita che è esploso assieme ai mortaretti, nella candela parlante sulla torta a forma di vangelo e nel gaudio dello spegnimento delle candeline. Si può essere felici per un compleanno, ma il gaudio di padre Amato è stato una benedizione divina, l’inno più assoluto alla gioia di vivere, sapendo della grazia divina e della caducità della vita.  Grazie per averci dato la speranza e il gaudio immenso per la sua gioia di esserci e di lodare Dio.

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