Un’occasione perduta

(Raimondo Augello)

image

Se l’opinione pubblica non fosse giustamente concentrata in questi giorni nel seguire gli sviluppi di una crisi economica internazionale che non ha precedenti dal ’29 ad oggi, probabilmente altra risonanza avrebbero avuto i fatti che si stanno consumando in Val di Susa. In quei luoghi un movimento di popolo, da cui restano sostanzialmente escluse le logiche di partito, fatto di gente di ogni condizione, operai, professionisti, famiglie, cerca in tutti i modi di manifestare il proprio dissenso nei confronti della scelta di costruire la linea ad alta velocità che dovrebbe collegare Torino a Lione. E se giusto in questi giorni Trenitalia non avesse decretato la soppressione delle linee ferroviarie a lunga percorrenza che collegano la Sicilia al Nord Italia, a decorrere dall’11 dicembre, forse non verrebbe la tentazione di porre in relazione questi due fatti apparentemente slegati e che riguardano luoghi dell’Italia tra loro tanto distanti; ma l’inquietante e per certi versi grottesca sincronia che li accomuna impone una riflessione. Dunque, in un momento in cui si ritiene non necessario il collegamento tra città come Palermo o Catania da una parte e Milano, Torino o Venezia dall’altra, e si procede di conseguenza al “taglio” di quei “rami secchi”, determinando un’ulteriore allontanamento del Sud dal resto d’Italia, provocando come effetto “collaterale” un’ulteriore perdita di posti di lavoro (dopo la chiusura peraltro dello stabilimento Fiat di Termini Imerese), dall’altra parte d’Italia non ci si cura della volontà del popolo sovrano né dei costi in termini economici (figuriamoci ambientali) della costruzione della Tav, e pur di realizzare il sogno di un’Italia (del Nord) sempre più vicina all’Europa, anche in tempi in cui la contingenza economica planetaria suggerirebbe maggiore ponderatezza prima di imbarcarsi in spese avventate, pur di tramutare quel sogno in realtà, dicevamo, non ci si preoccupa di usare la forza inviando contro quel popolo sovrano le forze dell’ordine a caricare.

Non è questa la sede per ripercorrere le tappe della “questione meridionale” né per rievocare il nobile contributo che nel corso di questi centocinquanta anni è stato ad essa fornito da tanti illustri pensatori (e la prima stagione del pensiero meridionalista, occorre ricordarlo, fu opera di uomini del Nord Italia, onesti intellettualmente) ma tuttavia, di fronte a tale grottesca e tragica sincronia mi viene in mente quanto recentemente il governatore della regione Puglia, Nichi Vendola, ospite della trasmissione di Rai 3 condotta da Fabio Fazio ebbe a dire. Vendola, sollecitato da una domanda del conduttore, ha affermato che mentre la questione meridionale ha una sua drammatica motivazione storica ed ha avuto il suo riferimento nel pensiero di insigni filosofi ed economisti, la questione settentrionale è invece una “volgare leggenda, una menzogna creata per scopi elettorali”. Credo che fatti come quelli che stiamo descrivendo ne siano la testimonianza più evidente, e dispiace che Mario Monti, in occasione del discorso di insediamento alla presidenza del Consiglio, abbia sentito il bisogno di dire che questo governo avrà a cuore tanto la questione settentrionale quanto quella meridionale, ponendo dunque sullo stesso piano cose che affatto non lo sono. Ci sarebbe piaciuto sentire altro dal presidente Monti, avremmo gradito udire parole rassicuranti verso un Sud da tempo alla deriva, in preda ai suoi atavici e ingravescenti mali, eppure quasi per strano paradosso capace di esprimere proprio in questi tempi una volontà di cambiamento e delle eccellenze nuove, nei sogni più proibiti avremmo forse immaginato che a coronamento dei festeggiamenti per l’unità nazionale il presidente del Consiglio avesse per primo il coraggio, tra gli uomini politici, di denunciare apertamente i torti subìti dal Meridione, il prezzo con cui ha pagato questo processo di unificazione, le stragi che ad esso si accompagnarono, le rapine, l’operazione di rimozione indotta della memoria collettiva. Ma così non è stato. Ancora un’occasione perduta. Nel novembre scorso mi è capitato di assistere presso l’aula magna della facoltà di Giurisprudenza di Palermo ad un incontro con lo scrittore Pino Aprile, l’autore del best-seller “Terroni”, ospite in Sicilia per un tour delle università che lo avrebbe portato anche a Catania e a Messina. Ebbene, due cose mi hanno colpito in modo particolare nel suo intervento; la prima è stato l’invito alla riflessione sul fatto che al Sud Italia dal Paleolitico al 1860 il fenomeno dell’emigrazione non era mai esistito (caso mai il Meridione era sempre stato meta ambita anche per fiorenti civiltà), mentre da quella data ad oggi gli emigranti sono stati più di venti milioni: una diaspora. La seconda affermazione è che la storia d’Italia, al dire di Aprile, da un certo punto di vista non differisce in nulla da quella degli Stati Uniti o del Giappone, dove si sono svolte guerre civili laceranti, ma che la vera differenza con quei paesi è che là si conserva la memoria e il rispetto dei vinti: negli Stati Uniti la toponomastica celebra i nomi dei generali nordisti vincitori nella guerra di secessione ma anche dei generali sudisti sconfitti; da noi no. In Giappone esistono sacrari dedicati ai samurai vinti nei quali la nazione intera, tributando i dovuti onori, ritrova le radici della propria storia e le ragioni più profonde della propria convivenza; da noi no. Da noi la storia scritta dai vincitori, quella che per esempio nulla ci racconta a scuola di Gaeta o di Pontelandolfo o di Casalduni, ha voluto apporre un sigillo definitivo alla verità storica, operando una rimozione della memoria che si spiega, al dire di Pino Aprile, con la fragile e recente identità politica del nostro paese, non sufficientemente maturo per confrontarsi con verità troppo scomode che rischierebbero di avere su di essa un effetto lacerante. Forse alla luce di tutto ciò, quanto sta accadendo in Val di Susa e in Sicilia non appare così stravagante e incoerente, forse la grottesca parabola delle ferrovie è la vera metafora capace di assumere in sé e di spiegare le contraddizioni di un paese che ha scelto con pienezza di intenti, sin dalla sua nascita, una tipologia di sviluppo a due velocità, perseguendo poi nel corso del tempo con accanita perseveranza quell’assurdo modello.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Il nostro sito web utilizza i cookie per assicurarti la migliore esperienza di navigazione. Per maggiori informazioni sui cookie e su come controllarne l abilitazione sul browser accedi alla nostra Cookie Policy.

Cookie Policy