IL TESTAMENTO DEL VICERE’

(Renata De Simone)

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Ettore Pignatelli

I notai, considerati personaggi di rilievo nella società odierna, possono vantare in Sicilia una lunga tradizione che si vuol fare risalire ai tabelliones di epoca romana. Dagli antichi tabelliones, infatti, derivano direttamente i notarii medievali: sono questi funzionari dotati di publica fides delegati alla stesura e convalida di ogni atto pubblico. Essi, per il delicato ruolo che svolgevano, furono oggetto di particolare attenzione da parte dei legislatori siciliani sin dall’epoca normanna, ma solo a partire dalle Costituzioni fridericiane del 1231 l’ufficio del notariato e le competenze di questi funzionari vennero minuziosamente regolamentate. Il campo d’azione del notarius variava in base alla licenza conseguita, che avveniva regia, imperiali o ecclesiastica autoctoritate; in questo modo si stabiliva una gradualità nella competenza territoriale, la cosiddetta piazza di rogazione, che individuava il territorio entro il quale operare, limitato ad una sola città, o esteso a tutto il regno e oltre. Norme precise regolavano la sua formazione professionale, la prassi da seguire nei vari tipi di atti rogati, l’obbligo di registrazione degli stessi.

Presenti nei momenti cruciali della vita di un individuo,i notai ne attestano l’attività lavorativa, ne testimoniano la capacità finanziaria, ne certificano la volontà testamentaria. Più attivo in vita è un personaggio, più intensa sarà la sua frequentazione con il notaio a cui ha affidato i suoi interessi e la tutela dei suoi diritti. Scoprire il suo notaio di fiducia significa seguire da vicino le vicende private di un personaggio illustre . E’ ciò che è capitato ad una studiosa[*] che, sfogliando i registri del notaio palermitano Giovanni de Marchisio, è incappata in un personaggio di tutto rilievo nella Sicilia di metà Cinquecento. Nientemeno che Ettore Pignatelli, duca di Monteleone, Luogotenente e Capitano Generale del Regno durante il viceregno di Ugo Moncada, poi lui stesso viceré di Sicilia dal 1517 al 1534. Molti gli atti che interessano questo alto funzionario, legato alla migliore nobiltà locale e con interessi a Malta e in Calabria, dove possedeva il suo maggiore feudo, Monteleone appunto, che è l’antico nome dell’odierna Vibo Valentia. E’ qui, dove si trova il suo castello, che fonda la chiesa di S.Maria di Gesù, con annesso Convento, commissionando allo scultore Antonello Gagini ben cinque statue per la cappella, tre delle quali, la Vergine con il Bambino, san Giovanni e la Maddalena sono visibili ancora oggi nella cattedrale di Vibo; là decide di far costruire il suo simulacro e là fa trasferire la salma di suo figlio Camillo. Al pittore Vincenzo da Pavia commissiona invece una tela che rappresenti i sette principi degli Angeli, destinata alla Chiesa dei Sette Angeli fondata nel Cassaro di Palermo.  Ma il documento, la cui stesura dovette impegnare maggiormente il notaio de Marchisio fu certamente il suo testamento, sottoscritto la prima volta nel 1527, modificato nel 1531, in quanto, morto il figlio, il viceré istituisce suo erede universale il nipote Ettore; i codicilli, poi, impegneranno per sette volte il notaio , gli ultimi redatti il 1° marzo 1535, pochi giorni prima della morte del duca, avvenuta il 7 marzo dello stesso anno. Molte le notizie d’interesse storico che emergono dai 10 registri notarili dedicati interamente agli affari privati del viceré, ma che si intrecciano con la storia locale dei territori direttamente amministrati dal ricco feudatario e con le vicende politiche siciliane. Per inciso tra le carte del registro si incontrano atti relativi alla rivolta di Gianluca Squarcialupo e ai risvolti patrimoniali legati all’eredità rivendicata dalla moglie Eloisa e dai figli del funzionario ribelle. Ma ciò che affascina maggiormente anche un lettore distratto è il lungo elenco di beni che forma l’inventario ereditario sollecitato al notaio dal nipote del viceré morto, Ettore, in occasione del suo trasferimento in Calabria. Scorrono davanti agli occhi del lettore arredi, vestiti e gioielli del patrimonio ereditario pronti per essere stipati nelle casse già predisposte all’occorrenza nelle stanze del palazzo viceregio in attesa dell’imbarco, dirette nella dimora calabrese del nuovo proprietario. Ci sono arredi sacri (Argentum, iogalia et ornamenta oratorii) tra cui una Madonna col bambino in braccio con piedistallo pure in argento, del peso di 5 libre e 5 onze, un S.Giovanni con il suo sgabello del peso di 6 libre e 6 onze, due reliquari e un Crocifisso d’argento dorato, icone, candelabri e un tondo con la Madonna , il Bambino e quattro Angeli del peso di circa sette libre, valutata dall’orefice mastro Giovanni Mayolino circa 10 ducati d’oro. Tra gli arredi della Cappella troviamo tovaglie di tela d’Olanda, candelabri d’argento lavorato del peso di 11 libre, ampollette di acqua e vino, un bauletto lavorato con impresse le armi dei Pignatelli. Nel Riposto sono in argento piatti e piattelletti, scodelle, saliere, oviere, brocche e boccali, tazze e cucchiaretti (c’è quello per le uova, quello per il midollo, per i granchi e per i babbaluchi) , oltre i soliti candelieri. E’ in argento il bacili per la barba e perfino la cannella di cristeri. Si passa poi ai gioielli: due anelli d’oro con grossi diamanti, uno con rubino, uno con zaffiro ; in un anello è incastonata una medaglia antica, un altro ha uno smeraldo, però falso, un altro è smaltato, un altro ancora in argento con incise delle lettere, utilizzato per alleviare lo male del fianco; molte le perle, tonde, a pero in lunghi fili (uno ne contiene 94) un solo quadretto è di corallo misto ad oro. Pietre preziose erano usate per guarnire cinture, fermagli d’oro e tessuti. Gli indumenti elencati nell’inventario sono di raso, velluto e cammello con fodera di agnello. Il raso e il velluto sono neri. Il mantello lungo è foderato di martora e di zibellino. Non mancano i tappeti, i baldacchini di velluto guarniti con frange di seta, cuscini, panni lavorati, tra cui uno si dice comprato a Messina da Giovanni Faraone, ci sono anche molte corone (paternostri) di corallo, avorio e legno con pendagli in seta. Tra gli oggetti minuti, una bilancetta per pesare i denari, due balestre con arco, due contenitori di cuoio per polvere da sparo, spicca una lente d’ingrandimento :uno tondo de cristallo a modo di uno specho che si tiene sulle lettere per fare le lettere grosse. E di certo se ne serviva il duca, proprietario di una ricchissima biblioteca. Per quella, pubblicata, si rimanda al lavoro di Carmen Salvo La biblioteca del viceré-Politica,religione e cultura nella Sicilia del Cinquecento Roma 2004


[*] Liboria Salamone Il viceré e il suo notaio: Ettore Pignatelli e Giovanni de Marchisio in Scuola di APDQuaderni VI Palermo 2005

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