“Niente di speciale” nella città di mare

(Carmelo Fucarino)

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Ho voluto leggere per intero il racconto, nell’ipotesi che avrei potuto dimenticare i fatti con una lettura intercorsa tra lunghi intervalli. Ora leggendo i files tutti di seguito, ma tracciando una pausa mentale tra l’uno e l’altro convengo che in un racconto, si dice, di spy story, lo spazio temporale tra le varie fasi crea uno momento di suspense e di curiosità che si prolunga nel tempo. D’altronde è stato dalle origini della letteratura, dico in Occidente dalla tecnica di pause e flashback nell’Odissea di Omero, un po’ più in là nell’epica sanscrita, come il Ramayana, un espediente abituale e consolidato creare uno stacco tra uno sviluppo agonico e l’altro, per dare sospensione e attesa, cambiando recisamente argomento e protagonista. Si pensi agli intrecci travolgenti dell’Orlando Furioso, ma allo stesso stacco narrativo del più umile dei nostri prodotti letterari, I Promessi sposi. Certamente è un modo diverso per seguire una vicenda misteriosa, forse con maggiore tensione di quanto possa darlo una lettura tutta di un fiato. In questo caso, mi sono convinto a posteriori, un certo modo di creare un contatto con il lettore attraverso stacchi temporali, in genere settimanali, aveva una sua efficacia e innestava l’attesa.

È senz’altro un effetto necessario per tenere avvinto il lettore. Penso alle puntate sui quotidiani, o a ritmo settimanale, ma dovrebbe sortire lo stesso effetto anche ad una cadenza quotidiana. Penso all’atmosfera di attesa che doveva procurare ai lettori medi di un nostro quotidiano locale, la lettura di una vicenda avventurosa come I beati Paoli di Luigi Natoli (1909-1910), presentata tra l’altro sotto il misterioso pseudonimo di William Galt, ma non dovevano essere diverse le sospensioni di vicende lacrimevoli e sentimentali come quelle di Grazia Deledda. Canne al vento uscì a puntate sulla Illustrazione Italiana (12 gennaio-27 aprile 1913). Senza contare che talvolta geniali creazioni uscirono a puntate, Delitto e castigo nel 1866 e I fratelli Karamazov (“Russkij vestnik", gennaio 1879 – autunno 1880). Certamente per un affresco così grandioso e complicato di fatti e personaggi talvolta sfuggirono a Dostoevskij alcune sviste narrative e incongruenze di fatti e personaggi, ma i lettori forse non se ne accorsero neppure, nel fluire delle vicende e nella tragedia abissale delle esistenze.  Ma per tornare a bomba, come si soleva dire nei tempi antichi, a lettura avvenuta con altro ritmo, l’impressione, comunque, non mi pare che sia sortita troppo diversa. C’è nel narrare un suo ritmo di attesa, un procedere per indizi, un dire soltanto un particolare insignificante che lascia nell’attesa di saperne di più. Il racconto, poi, come tipo di narrazione contratta ed espressa, la più condensata possibile, meglio sa cogliere queste sospensioni e questo scarto narrativo di quanto non può fare il romanzo che invece bada ai tempi allungati e all’evanescenza nel descrittivo e nel’espandersi del particolari. Qualcuno di cui non voglio citare il nome, riteneva il racconto la vera ed unica forma narrativa, perché bada alla più perfetta sintesi, punta in modo immediato soltanto ai fatti, non mediati da fronzoli e divagazioni su soli che sorgono e tramontano, su lunghe analisi di vestiti e cappellini. Il tempo cronologico dello sviluppo dell’azione è assai breve, da un’ora a pochi giorni, non si dimentica e scioglie nell’analisi di un’intera vita o addirittura di generazioni, è il sic et simpliciter. Problema: fu più grande il Verga dei racconti, rusticani o no, o dei romanzi? Certamente i piani narrativi e gli esiti furono diversi, ma…  Perciò il racconto di Gabriella Maggio riesce a creare un’atmosfera, si sviluppa in un’indagine serrata e senza tregua. Si rimane sempre in attesa di capire o di scoprire, sollecitati da nuovi particolari. E alla fine tutto si sfuma in una nebbia, in un nulla di fatto, che ci lascia però il senso di un lavoro misterioso e assurdo come quello della spia, con la percezione di una linea d’ombra tra il fare e l’essere. Quale missione aveva avuto da svolgere questa donna in una città di mare? E quale era stata la deviazione dal progetto? Perché tutto era svaporato? Tra la norma dello spionaggio e una probabile deviazione di organismi si accentua l’incomprensione del mestiere della vita. Il racconto riesce a dare questo senso di improbabile e di insicuro, questa melmosità del mestiere, sa fare cogliere questa incertezza della vita, espressa in un apprendistato che è pieno di dubbi, la vita in simbolo poliziesco, con tutti i suoi incidenti di percorso e le incertezze nel fare e nel capire gli altri. Tutto con un fraseggio semplice e scattante, ove la parola è fatto, senza divagazioni o arzigogoli descrittivi.

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