Estasi e banalità di un prato verde

(Carmelo Fucarino)

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Foto La Repubblica

Potrei cominciare con il palloso Leopardi, ma forse farei un cattivo servizio allo sport universale per la reazione istintiva ai ricordi scolatici di molti. Eppure il poeta delle insulse domande alla luna, l’innamorato della Silvia del “maggio odoroso”, nel novembre 1821si esaltò per il giovane asso del pallone, Carlo Didimi di Treia, in seguito carbonaro e patriota, e gli dedicò quella celebre canzone che figura al V posto dei suoi Canti, A un vincitore nel pallone, che in qualche verso non è poi così archeologico, eccetto il linguaggio:

Te l’echeggiante
Arena e il circo, e te fremendo appella
Ai fatti illustri il popolar favore;
Te rigoglioso dell’età novella
Oggi la patria cara
Gli antichi esempi a rinnovar prepara.

Potrei passare, a volo, alle Cinque poesie sul gioco del calcio del 1933, da molti ritenute il vertice della poesia di Umberto Saba, dall’ingresso in campo all’attesa del portiere, al goal e all’esultanza, e gridare a squarciagola dalla parte dei vincitori Goal:

La folla – unita ebbrezza – par trabocchi
nel campo. Intorno al vincitore stanno,
al suo collo si gettano i fratelli.
Pochi momenti come questo belli,
a quanti l’odio consuma e l’amore,
è dato, sotto il cielo, di vedere
.

Ma mi stravolge la passione completa, di un’intera esistenza della fantasiosa ala destra PPP, che assunse al livello di Verbum, la Parola esistenziale, quel gioco che è riuscito a rendere Nazione anche i Leghisti, se ieri sera 24 giugno ventuno milioni di italiani hanno seguito. Ne individuò la perfetta semantica attraverso la semeiotica del linguaggio: «Il football è un sistema di segni, cioè un linguaggio. Esso ha tutte le caratteristiche fondamentali del linguaggio per eccellenza, quello che noi ci poniamo subito come termine di confronto, ossia il linguaggio scritto-parlato. Infatti le «parole» del linguaggio del calcio si formano esattamente come le parole del linguaggio scritto-parlato. Ora, come si formano queste ultime? Esse si formano attraverso la cosiddetta «doppia articolazione» ossia attraverso le infinite combinazioni dei «fonemi»: che sono, in italiano, le 21 lettere dell’alfabeto.  I «fonemi» sono dunque le «unità minime» della lingua scritto-parlata. Vogliamo divertirci a definire l’unità minima della lingua del calcio? Ecco: «Un uomo che usa i piedi per calciare un pallone» è tale unità minima: tale «podema» (se vogliamo continuare a divertirci). Le infinite possibilità di combinazione dei «podemi» formano le «parole calcistiche»: e l’insieme delle «parole calcistiche» forma un discorso, regolato da vere e proprie norme sintattiche.  I «podemi» sono ventidue (circa, dunque, come i fonemi): le «parole calcistiche» sono potenzialmente infinite, perché infinite sono le possibilità di combinazione dei «podemi» (ossia, in pratica, dei passaggi del pallone tra giocatore e giocatore); la sintassi si esprime nella «partita», che è un vero e proprio discorso drammatico». E concludeva: « Ebbene, anche per la lingua del calcio si possono fare distinzioni del genere: anche il calcio possiede dei sottocodici, dal momento in cui, da puramente strumentale, diventa espressivo. Ci può essere un calcio come linguaggio fondamentalmente prosastico e un calcio come linguaggio fondamentalmente poetico. Per spiegarmi, darò – anticipando le conclusioni – alcuni esempi: Bulgarelli gioca un calcio in prosa: egli è un "prosatore realista"; Riva gioca un calcio in poesia: egli è un "poeta realista". Corso gioca un calcio in poesia, ma non è un "poeta realista": è un poeta un po’ maudit, extravagante. Rivera gioca un calcio in prosa: ma la sua è una prosa poetica, da "elzeviro". Anche Mazzola è un elzevirista, che potrebbe scrivere sul "Corriere della Sera": ma è più poeta di Rivera; ogni tanto egli interrompe la prosa, e inventa lì per lì due versi folgoranti.  Si noti bene che tra la prosa e la poesia non faccio distinzione di valore; la mia è una distinzione puramente tecnica». E individuava l’alta poesia: «Ci sono nel calcio dei momenti che sono esclusivamente poetici: si tratta dei momenti del “goal”. Ogni goal è sempre un’invenzione, è sempre una sovversione del codice: ogni goal è ineluttabilità, folgorazione, stupore, irreversibilità. Proprio come la parola poetica. Il capocannoniere di un campionato è sempre il miglior poeta dell’anno. In questo momento lo è Savoldi. Il calcio che esprime più goals è il calcio più poetico. Anche il "dribbling" è di per sé poetico (anche se non "sempre" come l’azione del goal). Infatti il sogno di ogni giocatore (condiviso da ogni spettatore) è partire da metà campo, dribblare tutti e segnare. (Il calcio "è" un linguaggio con i suoi poeti e prosatori, in Pier Paolo Pasolini, Saggi sulla letteratura e sull’arte, Mondadori, Milano 1999, v. II, pp. 2545-2551). Ma quello che maggiormente mi coinvolge è la sua esaltazione del calcio come liturgia: «Il calcio è l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo. È rito nel fondo, anche se è evasione. Mentre altre rappresentazioni sacre, persino la messa, sono in declino, il calcio è l’unica rimastaci. Il calcio è lo spettacolo che ha sostituito il teatro. Il cinema non ha potuto sostituirlo, il calcio sì. Perché il teatro è rapporto fra un pubblico in carne e ossa e personaggi in carne e ossa che agiscono sul palcoscenico. Mentre il cinema è un rapporto fra una platea in carne e ossa e uno schermo, delle ombre. Invece il calcio è di nuovo uno spettacolo in cui un mondo reale, di carne, quello degli spalti dello stadio, si misura con dei protagonisti reali, gli atleti in campo, che si muovono e si comportano secondo un rituale preciso. Perciò considero il calcio l’unico grande rito rimasto al nostro tempo» (Guido Gerosa, intervista P.P.Pasolini, in L’Europeo, 31 dicembre 1970). Perché questo ho sentito nei bar e nei negozietti colorati della Grand Street della China Town di New York, ove gruppi raccolti davanti ai grandi pollici Tv, officiavano assieme il rito del calcio europeo. E un poco oltre nella magica e delirante Mulberry Street di Little Italy,folgorante di insegne, ho vissuto il calore di uno slang assortito di napoletano-siciliano-veneto-lombardo che nella lunga strada vociante dall’ininterrotta catena di ristoranti mi richiamavano l’unico linguaggio universale a tutti noto. Perché cinese o italo-americano di diverse generazioni il calcio scorre è impresso nelle cellule come l’eliche del DNA, pulsa con il sangue nelle vene, ma soprattutto è impresso da secoli nella memoria collettiva. Unisce tutte razze del villaggio globale e si espande in ogni gruppo sociale, è il rito magico che nessuno scandalo, nessuna ruberia può macchiare. Buffon era là, in quella porta, a parare il decisivo calcio dal dischetto della vittoria. Senza macchia e senza sospetti in quell’attimo in cui lo stadio esplodeva in un delirio senza fine. Quando tutte le liturgie sono consunte, nonostante l’impegno di rinnovarle con l’uso della lingua moderna e delle chitarre, a New York ho assistito alla liturgia del Centenario di Saint Patrick con jazz e gospel, il rito dello stadio, soprattutto quello dei campionati internazionali vive ancora forte e sentito ed è officiato da milioni di fedeli nello stesso attimo.

E infine fra cotanti geni un mio piccolo omaggio:

Al pallone che svetta

all’incrocio dei pali

si strozza l’urlo in gola

e si accascia la nazione

nel silenzio della sconfitta.

Ci sono le colpe degli arbitri

e gli errori dei difensori

nell’accensione dei tifosi,

le certezze di altre vittorie

nei verdi campi della patria.

(dal mio Percorsi di Labirinto, Palermo 2010, p. 82, Il prato verde,16 novembre 1985).

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