SAVIEZZA E FOLLIA IN DON CHISCIOTTE E NEL SUO SCUDIERO Seconda Parte

(Rossella Cerniglia)

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Don Chisciotte disegnato da Salvator Dalì

L’antitesi Sancio/Chisciotte è ben visibile, d’altronde, nell’interpretazione della realtà oltre che nel linguaggio che la nomina, e che è, necessariamente, quello di due distinte culture: letteraria e astratta l’una, ingenua e pragmatica l’altra. Così i mulini a vento di Sancio sono, nella visione donchisciottesca, i giganti dei poemi cavallereschi, di cui a lungo si è nutrito; una bacinella da barbiere è l’elmo di Mambrino; le osterie sono castelli, e le serve e le prostitute che in esse si incontrano sono nobili dame. Indice, pure, di questo travisamento e di questa visione ambivalente della realtà è la duplice caratterizzazione di nobildonna/contadina di colei che Don Chisciotte ha scelto per sua dama e si è imposto di amare in ossequio al codice cortese-cavalleresco. Essa è, secondo l’una o l’altra visione, Aldonza Lorenzo/Dulcinea del Toboso. Invocata da Don Chisciotte come “giorno della mia notte …bussola dei miei itinerari…” e simili altri appellativi barocchi, durante la penitenza che egli stesso si era inflitta nella Serra Morena, è riportata a connotazioni più realistiche da Sancio con l’esclamazione: ”Figlia d’una grandissima, che muscoli che ci ha, e che voce!”

A questo dualismo, a questo scambio prospettico e a questa ambivalenza tra essere e apparire rimandano anche gli ossimori “sventurate avventure” o “intelligente follia” che si trovano disseminate nel romanzo e che lo animano di una ironia suadente e giocosa. Ma la complementarità dei due personaggi, fondata, all’inizio, su dissonanze e su caratteri antitetici, si attenua via via, in un travaso vicendevole di esperienze e di idee, per cui si è parlato di chisciottizzazione di Sancio e di sancizzazione del Chisciotte.  In virtù di tale travaso, anche Sancio subisce un indottrinamento e forbisce il suo linguaggio, che tenderà, progressivamente, ad assomigliare a quello dell’hidalgo. Anch’egli matura la sua follia che consiste sostanzialmente nel credere alla promessa fatta da Don Chisciotte di procurargli il governo di una fantomatica Isola . Possiamo credere allora che la follia di cui parla Cervantes sia la trasposizione dei nostri irrealizzabili desideri? Vuole, egli, farci intendere che chi si mantiene sul piano dell’idealità pura, senza fare i conti con la concretezza del reale, è già sul piano della follia?  Ma se è vero che Sancio rappresenta piuttosto le pulsioni “basse” che attengono alla concretezza e gioiosità del vivere – indicativo è, in tal senso il suo cognome (Panza) che bene esprime simili pulsioni e appetiti – Don Chisciotte traduce, invece, le pulsioni alte, nobilitate e astratte dell’intelletto, che non vanno in direzione del piacere di vivere, della giocosità e giocondità che da esso può derivare, bensì della serietà e della coerenza più austera. In essa, si riassume anche la permalosità del personaggio quando qualcuno mette in forse la sua visione della realtà deformata dall’influenza nefasta delle sue appassionate letture. Visione, certo, permeata di morte, non già di vita, come avviene nel suo scudiero Sancio. Però, in virtù di questo travaso, nel romanzo, vita e morte si scontrano, realtà e immaginazione si contendono il campo, razionalità e follia si compenetrano, si confondono, animano ogni scena della vita intera. Inoltre, con la continuazione apocrifa del romanzo da parte di Avellaneda, Don Chisciotte si trova poi ad essere personaggio reale e libresco, letterario e concreto a un tempo; e da personaggio reale egli deve difendere la veridicità del suo personaggio letterario da opporre alla non-veridicità del personaggio Don Chisciotte dell’Avellaneda.

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