«Sarò Doge nel volto, e padre in core»

(Carmelo Fucarino)

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Scheda tecnica

Tragedia lirica in tre atti di Francesco Maria Piave,

musiche di Giuseppe Verdi

Azione: Palazzo ducale di Venezia nel 1457

Prima esecuzione: 3 novembre 1844, Teatro Argentina di Roma.

Incisioni recenti, 1976, Piero Cappuccilli, José Carreras, Katia Ricciarelli

1988, Renato Bruson, Alberto Cupido, Linda Roark-Stummer

Da riascoltare: Atto I, Preludio, Coro, Silenzio… Mistero… Aria di Jacopo, Dal più remoto esiglio, Cavatina di Lucrezia, Tu al cui sguardo onnipossente, Cabaletta O patrizi, tremate (Lucrezia, Pisana, Coro), Romanza del doge, O vecchio cor, che batti, Duetto Doge e Lucrezia, Tu pur lo sai che giudice, Cabaletta Se tu dunque potere non hai (Lucrezia, Doge)

Atto II Aria di Jacopo Non maledirmi, o prode, Duetto di Lucrezia e Jacopo, No, non morrai, Cabaletta Speranza dolce ancora, Terzetto Nel tuo paterno amplesso (Jacopo, Doge, Lucrezia), Sestetto Queste innocenti lacrime

Atto III, Coro Alla gioia, alle corse, alle gare e Barcarola Tace il vento, è queta l’onda, Aria All’infelice veglio (Jacopo, Lucrezia), Aria Più non vive!… l’innocente (Lucrezia), Aria Questa è dunque l’iniqua mercede (Doge, Barbarigo, Loredano, Coro), Finale Quel bronzo feral (Doge, Loredano, Barbarigo, Lucrezia, Coro).

Con questo allestimento dell’ABAO di Bilbao e del Teatro Verdi di Trieste, la direzione del Massimo annunzia l’avvio dei festeggiamenti per il bicentenario della nascita di Giuseppe Verdi che vedrà quattro suoi capolavori nel tabellone 2013, equamente divisi con il centenario dell’altro gigante Wagner, prossimi nell’arte. Per di più l’opera, un piccolo gioiello, è una prima per il Massimo di Palermo, risalendo l’ultima messa in scena al 1880 nell’allora Teatro Carolino (poi Bellini). Altra nota di eccezionale l’ottuagenario doge è bene interpretato dal baritono Leo Nucci nella voce altrettanto eccezionale e nell’età rispettabile dei 71 anni incedenti (aprile 1942), che non si riserva neppure di rotolare a corpo morto per qualche scalino del proscenio. Inoltre Anna Lucrezia Garcia, nata violista in Venezuela e finita soprano in Spagna, di professione Aida di eccellenza a Madrid, Segovia, Atene e all’Arena di Verona, e non solo. Poi tutto l’organico che ha dato anima e fiato a questo Verdi riscoperto a Palermo (l’opera sarà ripresa a marzo al Teatro dell’Opera di Roma, diretta da Riccardo Muti, regia di Werner Herzog), un Verdi fervido, mutevole di ritmi, dal turbinoso al roboante al tenero ed elegiaco, con quei dolci preludi e la barcarola del terzo atto, l’irrefrenabile susseguirsi di scene, che coinvolgono e commuovono.

Ho raccolto le perle della struttura operistica, ma ogni nota verdiana ha la sua originalità ed efficacia, fonica e drammaturgica. Poi il tema narrativo del dramma. Erano gli anni eroici di Verdi. Dopo i terribili lutti a catena intorno agli anni 1840, che avrebbero prostrato un toro, la folgorante risposta del Nabucco con quel celeste Va pensiero e di seguito gli “anni di galera”, come li definì lo stesso maestro, una carriera travolgente e forsennata con un’opera all’anno per dieci anni, opere dette giovanili, spesso su commissione, ma che documentano l’evoluzione verso i rivoluzionari esiti musicali e drammaturgici personali, che culminarono nei capolavori di Ernani e Macbeth. In questo turbine creativo si colloca prima questa opera veneziana (a Venezia sono dedicati elegiaci omaggi, i Cori, Silenzio…Mistero, Tace il vento, Alla gioia, per la regata, Brezza del mar natio, aria di Jacopo). Verdi nella lettera del 22 luglio 1848 esprimeva a Piave i suoi dubbi sulla tragedia di Byron (1821): «Bada bene di evitare la monotonia. Nei soggetti naturalmente tristi, se non si è ben cauti si finisce a fare un mortorio». Eppure a parte qualche scoperta eco donizettiana il bel canto italiano e la linea melodica si sciolgono in un susseguirsi di sorprese e di innovazioni. Ai melomani un piacere e una sorpresa la realizzazione palermitana.  Quello che mi corre rilevare è invece il tema, come faccio da un po’ di tempo nelle mie riflessioni post eventum, dopo che tutto è stato detto e ridetto sull’esecuzione. Per tutta l’opera corre un insistente filo conduttore, un leit-motiv: «Prima che Doge, egli era padre», «ma cor di padre sei», «l’amor solo di padre ti mova,che del Doge più forse potrà», «Sparve il padre, ora il Doge sol v’è», «Sarò Doge nel volto, e padre in core». È il dissidio esistenziale del sacro e potente doge (il bizantino dux, un duca particolare, quasi divus come un imperatore romano, ma elettivo) e del padre, quel contrasto tra l’obbedienza al rigore della legge e le esigenze del cuore, l’opposizione tra pubblico potere e amore paterno. Il tema politico domina sui sentimenti, quasi un tragico dilemma sofocleo, legge e amore. Là si avanzava la critica alle norme inumane del potere perverso, quell’obbedienza ferrea alla sacralità della legge, fino al rifiuto della salvezza e alla accettazione della cicuta. Antigone e Oreste che violavano la legge umana in nome della sacralità della tomba e dell’amore familiare. Qui l’obbedienza alla decisione politica del gruppo oligarchico del Consiglio dei dieci, più inesorabile, proprio perché riguardava il figlio di un doge. La tragedia sta in questa ineluttabilità della condanna, che sarebbe potuta essere diversa se non si fosse trattato di lui. Nella Venezia oscura dei complotti e degli assassini politici il doge trafitto da un’ultima perdita dei quattro figli, sente suonare i rintocchi per il nuovo doge, la conclusione tragica di una ingiustizia politica. Non per nulla aleggia terrificante un’ombra o un sogno, il Conte di Carmagnola: «Il reciso suo teschio / ferocemente colla manca porta!…». Manzoni ne aveva pubblicato la tragedia nel 1820. Tocco finale, alla perdita dell’ultimo figlio il disonore della destituzione. Priva dell’appeal del titolo altisonante e accolta con qualche diffidenza dal pubblico della prima, finita con ovazioni a scena aperta tra un pezzo e l’altro e con giudizi entusiastici di sorpresa e di encomi.

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