I DUE FOSCARI

( Salvatore Aiello )

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I due Foscari – Fr. Hayez

I due Foscari mancavano dai nostri palcoscenici dal lontano 1880 allorchè vennero rappresentati al Teatro Bellini (ex Carolino) e per la prima volta, a conclusione della Stagione 2012, approdavano al Massimo.Il teatro palermitano ha inteso introdurci ai festeggiamenti verdiani del 2013 con quest’opera che si eleva sulla produzione degli “anni di galera” per la nuova vocazione di Verdi a fare del suo teatro il Teatro di personaggi che si stagliano per la loro inconfondibile cifra drammatica e psicologica. Affascinato e irretito dal dramma di Byron, egli trovò il soggetto bellissimo poiché portatore, nelle sue pieghe intime, del dramma sconvolgente che vede i protagonisti dilaniati fra la ragion di stato e gli affetti familiari. Francesco Foscari, il grande Doge che regnò per un trentennio, si erge come creatura dai forti caratteri della tragedia greca cui la vita riserva, proprio alla fine di un’esistenza assai travagliata, l’amaro calice di sventure, ingratitudini e tradimenti.

A salvarlo da tale precipizio è il suo profondo senso dello stato e la grande dignità. Doge, come Boccanegra, è Foscari. L’opera, di cui Massimo Mila fu grande sostenitore, “segna una tappa importante nell’evoluzione espressiva verdiana”. E’ la prima nella quale i casi e le motivazioni politiche costituiscono il centro dell’azione additando una via che attraverso Macbeth giunge al Don Carlos. Essa è ammantata di lutto poiché tutto precipita verso la disfatta e l’annientamento dei Foscari; Jacopo e Francesco la cui vicenda umana non tocca minimamente né flette i moti del cuore del Consiglio dei Dieci,finiranno il primo col morire esiliato, l’altro cacciato dal trono ormai vecchio e sostituito da vivo, col nuovo Malipiero. Nonostante i limiti si riscatta però per la disponibilità alla melodia ma soprattutto per i pezzi di cuore che Verdi, orfano dei figli, vi immette e finisce col risultare emozionante e gradita ai nostri pubblici che nell’ultimo trentennio le hanno consentito una grande circolazione e successo per gli interpreti quando questi risultano del tutto adeguati. Ciò è quanto successo a Palermo. Direttore e concertatore Stefano Ranzani si è imposto per aver riportato l’opera nell’alveo epico in cui è stata concepita evitando però cedimenti a quegli accompagnamenti che i tedeschi amano definire um-ta-tà musik. Vigile e dialogante col palcoscenico si disponeva con duttilità ad esaltare ritmi ma anche a trovare sfumature e colori per definire e delineare compiutamente sia i momenti lirici che quelli drammatici della partitura restituendo al compositore ciò che di diritto gli appartiene. Leo Nucci carico della sua grande esperienza di animale da palcoscenico ha saputo delineare magistralmente il suo personaggio in perfetta sintonia col dettato verdiano esprimendo tutti i patemi dell’amore paterno che conosceranno il limite della ragion di stato. Intelligenza quindi interpretativa, fraseggio articolato, presenza scenica ma soprattutto parola drammatica fanno di questo baritono ancora una lezione di stile, di passione, di amore e di capacità di tenuta con un dominio ragguardevole dei suoi mezzi vocali. Con lui l’altro Foscari, Jacopo, trovava in Pietro Pretti una voce giovane e sorgiva, di bel timbro che avevamo avuto modo di apprezzare nella recente Luisa Miller scaligera, risultando un convincente interprete dalla linea di canto morbida e tecnicamente solida; apprezzabile poi risultavano il fraseggio incisivo, l’intonazione sempre perfetta, il volume, l’acceso temperamento e la capacità di trovare i giusti colori per raccontarci tutta l’infelicità del personaggio destinato a morire esule senza alcun conforto familiare.  La venezuelana Lucrecia Garcia vestiva i panni di Lucrezia Contarini. Avrebbe dovuto essere l’erede della Barbieri Nini, prima leggendaria interprete dell’opera e in tempi più recenti, di Maria Vitale che nel 1951, con uno strepitoso Giangiacomo Guelfi, per la prima volta nel secolo riprese il ruolo e della leggendaria Leyla Gencer che, mentore Serafin, nel 1957 diede impulso e vita alla Verdi-renaissance. Purtroppo dobbiamo dire che non sempre è stata all’altezza del ruolo della figlia di doge e nuora di doge; il suo canto pur dotato di una imponente vocalità di soprano lirico spinto ( non drammatico di agilità come si richiede) risultava poco nobile così come il gesto e la recitazione in genere. Una vocalità così ragguardevole necessiterebbe di considerare meglio il personaggio conquistando più finezza espressiva e fluidità nei passi di agilità e soprattutto di una più controllata tecnica che le possa evitare asperità e trovare un canto maggiormente raccolto e sostenuto. Completavano il cast l’efficace Loredano di Luiz-Ottavio Faria, Pietro Picone (Barbarigo), Adriana Calì (Pisana), Domenico Ghegghi (Il fante), Giovanni Lo Re (Un servo). L’allestimento dell’Abao di Bilbao e del Teatro Verdi di Trieste risultava anonimo e in genere spoglio di ogni riferimento alla vicenda così come le scene di William Orlandi autore anche dei costumi; aleatorio era poi l’apporto registico di Joseph Franconi Lee. Raffaella Renzi curava la coreografia dello spettacolo che si giovava delle efficaci luci di Roberto Venturi. I tre atti dell’originale venivano condensati in due parti, in un certo modo, per moderare i numerosi cambi di scena evidenziati dallo scorrere continuo di pannelli che tentavano di annodare e raccontare le vicende dei tre personaggi principali senza però raggiungerne pienamente lo scopo. Valida e in risalto la prestazione del Coro istruito da Andrea Faidutti. Trionfo finale per il grande doge Leo Nucci e calorosissimi applausi per tutti gli interpreti da un pubblico meno numeroso del solito.

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