PAOLO

(Aurora D’Amico)

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Guardo l’orologio. Mi sembra passata un’ora dall’ultima volta che i miei occhi si sono posati su quell’affare, eppure sono ancora le dodici e venti. Quindi provo ad appoggiarmi allo schienale del divanetto della sala d’aspetto e continuo a mordermi l’interno della guancia. Ma quanto tempo ci vuole? La gente passa davanti noncurante del fatto che la mia gamba si stia muovendo freneticamente, su e giù con impazienza. Dodici e ventitré. Mi viene in mente mio padre, intento a leggere le notizie del quotidiano, che mi dice di mantenere la calma e non preoccuparmi. E poi mia madre, con le sue candele profumate, i tappetini e le ore di meditazione. “Ma che stai facendo?” le urla mio padre, alzando lo sguardo dal giornale. “Vergognati! Una donna di sessant’anni rotolata per terra come un salame, che cerca inutilmente di incrociare le gambe. E adesso che fai? Ti sei messa pure a fare il verso delle mucche?”. Ecco, questa scena mi fa dimenticare per un attimo il motivo per cui sono così nervoso.

La mia famiglia è sempre stata movimentata; a Natale, poi, sembriamo una carovana irrequieta. Ma originariamente a casa mia eravamo solo in cinque: i miei genitori, io, mia sorella e mio fratello. Mia sorella maggiore, Ada, si è sposata giovanissima e al primo anno di matrimonio aveva dato luce a due gemelli a cui bada incessantemente. Da piccola era sempre stata brava a scuola, o in qualsiasi altra cosa in cui si fosse impegnata, ed era quindi l’orgoglio della famiglia. Mio fratello Nicola, d’altro canto ha sempre portato scompiglio in casa, sin dal giorno in cui ha deciso di salvare dalla strada quella specie di cane, Dylan Dog; un cane che non fa altro che mordersi la coda e inseguire le mosche per casa. E poi ci sono io, Paolo, il figlio di mezzo; quello che sebbene non andasse male a scuola come il fratello minore, non arrivava mai a farsi notare tanto quanto la sorella maggiore; quello di cui nessuno si preoccupava perché “si sa: Paolo se la può cavare da solo”. Non sto dicendo che i miei mi volessero meno bene rispetto agli altri miei fratelli. Anche se nel momento in cui la mia mente formula quest’affermazione, non posso fare a meno di ricordare l’anno in cui tutta la famiglia si era dimenticata del mio compleanno, a causa di una frattura del mignolo destro di Nicola. Dodici e trenta. A trent’anni ho trovato un posto in banca e da allora ho iniziato a vivere da solo. Questa casa è sempre aperta, Paolo. Ricordatelo!” ripeteva mia madre, con le lacrime agli occhi, mentre io dentro facevo i salti di gioia.  Era terrorizzata all’idea che andassi a vivere per conto mio. E fu quello l’anno in cui si avvicinò alle filosofie orientali, costringendo mio padre a comprare unguenti e profumi per espandere vibrazioni positive in tutto l’appartamento. L’unico motivo per cui mio padre acconsentì, fu il fatto che in questo modo avrebbe ottenuto un paio d’ore al giorno davanti al televisore senza essere disturbato. O almeno, così credeva.Ma fu anche l’anno in cui conobbi Marta. Il nostro primo incontro mi piace immaginarlo in un parco, con un’atmosfera autunnale e una melodia al pianoforte di sottofondo; ma tutto ciò è ben lontano da quello che accadde veramente. Ci incontrammo in banca: lei aveva bisogno di un prestito e io l’aiutai ad ottenerlo. Fine della storia. Solo dopo scoprii che quei soldi le servivano per realizzare il suo sogno e aprire un negozio di fiori. Inutile dire che da quel giorno in poi divenni improvvisamente un appassionato di rose indiane e girasoli australiani. Mi recavo al suo negozio regolarmente e compravo così tanti fiori che Marta pensò che non fossi single. E si turbò quando, infatti, le chiesi di uscire per la prima volta. Adesso che siamo sposati, questa storia ci fa semplicemente ridere. È quasi l’una di notte. Finalmente la porta davanti a me si spalanca ed esce un’infermiera con un’aria soddisfatta. Sorridente, mi dà la bella notizia: è una femmina! Corro dentro, più entusiasta che mai: Marta è distesa sul lettino dell’ospedale con in braccio la nostra bambina. E finalmente lo capisco: non mi importa se dagli altri sono visto come un figlio di mezzo, un fratello maggiore o minore, un semplice impiegato di banca o un marito. Da oggi decido di volere essere un padre, indipendentemente da ciò che si dirà di me. D’un tratto mi sento invincibile: tengo in braccio quell’esserino così piccolo e fragile, e mi prometto di prendermene cura fino a quando ne avrà bisogno. Poi un fiume di domande inizia a prendere forma nella mia mente: e se non sarò all’altezza della situazione? Se non sarò un padre abbastanza comprensivo? E se, invece, sarò fin troppo comprensivo? Ma tutte queste domande passano in secondo piano quando ne affiora un’altra: e se non le piacerò?  Rimetto la creatura nelle braccia della donna da cui è venuta, allontanandomene. Adesso ne sono altamente terrorizzato. Mi sudano le mani e quasi non sento che la bambina, ora in braccio a Marta, ha iniziato a piangere.  Penso voglia stare col suo papà” mi dice, sorridendo e facendomi segno di riprenderla in braccio. E devo dire che ha ragione, perché appena mi avvicino per provare una seconda volta, ecco che smette di lamentarsi. Però: che sensazione!  Sono un papà.  Mi piace.

Un pensiero riguardo “PAOLO

  • 3 aprile 2013 in 21:46
    Permalink

    Bellissimo!

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