Come si scrive il dialetto siciliano?

( Pippo Pappalardo)

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Dipinto di Pippo Pappalardo

In un mio articolo precedente ho evidenziato che il dialetto siciliano, nonostante i suoi otto secoli di letteratura, continua a rimanere sprovvisto di regole ortografiche consolidate e condivise, contrariamente alla lingua italiana che ha un’ortografia stabilizzata ed accettata. L’alfabeto italiano ha 21 lettere (a, b,… z) più le cinque “straniere” (j, k, w, x, y). Con queste 26 lettere (o grafemi che dir si voglia) si scrivono parole italiane, anglofone, etc. Questi stessi grafemi non bastano per scrivere parole dialettali come çiatu, çiuri, sanġu, anġa, strata, speżżi, etc. Per scrivere queste parole occorrono i cosiddetti «segni diacritici», che altro non sono che grafemi italiani modificati per significare che la pronuncia è diversa dall’italiano. I segni diacritici dialettali hanno un difetto: non tutti i sistemi informatici li prevedono o sono in grado di gestirli. Questo problema, affiancandosi all’inesistenza di correttori di testo dialettale, aumenta le difficoltà di cui ho parlato nell’articolo precedente. In ogni caso i problemi esistevano anche prima dell’avvento del computer… C’è da dire che, così com’è avvenuto per l’italiano, l’ortografia dialettale si è modificata nel tempo. Gli studiosi parlano di «vecchio siciliano», fino al 1600, e di «nuovo siciliano», nei secoli successivi. Ad esempio la parola kiummu, nel Cinquecento, si scriveva con il k; successivamente il k è scomparso e ora si scrive chiummu. La ç di çiatu (dal latino flatus) ha una sua storia. Veneziano e Galeano scrivevano xhiatu usando il grafema xh. Nel Giugno del 1870 a Palermo si svolse una Conferenza del dialetto siciliano con l’obiettivo di fissare le norme dell’ortografia. Ad essa parteciparono personaggi come Vigo, Pitrè, Salamone Marino, La Lumia ed altri. Quella Conferenza riuscì a prendere una sola decisione: scrivere ciatu con la lettera c anziché con xh. Risultato: oggi il VS (vocabolario di cui ho parlato in precedenza) propone di scrivere çiatu con la ç cedigliata; il Mortillaro (che risale alla metà dell’Ottocento) scrive ciatu senza cediglia; altri preferiscono sc. Colpa dei sistemi informatici?

Io penso che, in assenza di regole, ogni autore scrive in funzione della propria esperienza o, quel che è peggio, dei propri ragionamenti. Un altro caso emblematico riguarda l’uso della j (i lunga). Il VS, per semplificare la grafia, suggerisce di evitarne l’uso in casi come iocu, iuncu, iattu, etc. Alcuni poeti continuano ad usarla, in linea con la tradizione dialettale. Ci sono anche quelli che distinguono funzione vocalica di itu dalla funzione consonantica di un jitu (che il VS suggerisce invece di trascrivere gnitu). Inoltre c’è il caso delle doppie consonanti di inizio parola. Il VS raddoppia tutti i lemmi che iniziano con b (es. bbeddu, bbonu) così come tanti lemmi che iniziano con r (es. rracina, rristari, etc.); il che fa storcere il naso a quegli autori che ritengono che il sistema ortografico dialettale debba conformarsi a quello italiano. Io aderisco al sistema ortografico del VS per una semplice ragione: il dialetto siciliano (che, ripeto, deriva dal latino e non dall’italiano) non può appiattirsi sull’ortografia della lingua italiana, pena una serie di incongruenze fra grafia e fonia. Sempre per bbeddu c’è la questione della d occlusiva che andrebbe scritta con una d sottopuntata. Questo carattere, però, non è previsto dal Word e spesso si finisce con lo scrivere d normale. In questo modo non si riesce più a distinguere l’occlusiva di addivari (allevare) dalla dentale di addunarisi (accorgersi). Per non riparlare infine della fonografia… Riporto qui di seguito un brano di G. Tamburello, scritto in puro fonografismo, dal quale si evincono alcune stranezze ortografiche:

Longgu lu disccurssu è? Lassavi lu picciriddru sulu e tant’assà nu’ mpozzu stari…

Insomma: l’ortografia dialettale, che è sempre stata contrassegnata dalla variabilità, oggi è vittima dell’arbitrarietà. Volendo uscire dalla sterile analisi ed entrare nel fertile campo delle soluzioni, il contributo che vorrei dare in questa sede è di ricordare qualche regola ortografica dedotta da testi editi del Centro di studi filologici e linguistici siciliani:

a) le parole piane (es. lassari) non vanno mai accentate;

b) si accentano sempre le parole tronche, sdrucciole (es. mènnulu), bisdrucciole e le parole che

terminano in –ia (es. fìgghia, piscarìa) oppure in -iu (es. ghiàcciu, finìu);

c) me, to, so (mio, tuo, suo) hanno l’accento se non sono anteposti al sostantivo (es. me frati;

lu frati mè);

d) l’accento circonflesso si usa in caso di fusione vocalica (es. a lu = ô; a li = ê, di li = ) e in

altri casi descritti dal VS;

e) il trattino d’unione si usa (ma non tutti sono d’accordo) quando dall’incontro di due parole

deriva un adeguamento fonetico (es. m-piru, nom-moli, a-gghessiri, côm-pirduna, etc.);

f) le preposizioni e gli avverbi impropri vanno scritti senza trattino: ncapu (sopra), nfacci

(di fronte), etc;

g) l’apostrofo (il cui uso tende a ridursi) va usato se l’elisione è occasionale e non si tratta

invece di un’incondizionata e costante caduta della vocale.

Ovviamente le regole sopra enunciate vanno approfondite attraverso la lettura del VS e dei testi specialistici. Queste mie riflessioni possono però tornare utili a comprendere che esiste una «questione dell’ortografia dialettale». Ribadisco il mio pensiero: è necessario che un Ente si occupi di definire le guidelines dell’ortografia dialettale. Non chiedo di creare la koinè lessicale né, tanto meno, di redigere una grammatica buona per ogni zona geolinguistica. Chiedo invece di stabilire pochi, semplici segni diacritici, compatibili con i sistemi di scrittura computerizzati. Chiedo inoltre che, regole come quelle sopra enunciate, vengano standardizzate e – si spera – condivise dagli autori. La condivisione sarà tanto più probabile, quanto più autorevole sarà l’Ente che si occuperà di stabilizzare l’ortografia. Un fatto è certo: non ci si può affidare al buon senso o al gusto degli autori. E’ giusto richiamare l’opportunità di essere semplici e coerenti, ma la definizione di norme ortografiche non può che passare attraverso gli specialisti dell’ortografia. Se nessuno interviene e la situazione resta inalterata, assisteremo al dilagare dell’arbitrarietà. Con la conseguenza che i poeti saranno sempre più demotivati dall’usare il dialetto per scrivere i loro versi e, ciò che è più grave, saranno dissuasi quei giovani che vogliano accostarsi alla lettura o alla scrittura del dialetto siciliano.

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