Mattonella numero trentasei

( Aurora D’Amico)

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Trentaquattro,trentacinque,trentasei. Anche stasera sono puntuale e tengo stretta tra le mani la tracolla della mia borsa nera. Saluto le altre ragazze e mi guardo intorno: del capo ancora non c’è nemmeno l’ombra. A lavoro mi conoscono come Tracy, ma questo non è il mio vero nome. Nemmeno le mie colleghe sanno quale sia in realtà; come io d’altronde non conosco il loro. Ognuna di noi ha una storia alle spalle, ma non a tutte è possibile raccontarla alle altre o ricordarla a se stessa. Faccio questo lavoro da quando mio padre abbandonò me e mia madre. Inutile dire che non avevamo scelta. Ero una bimba come le altre e come moltissimi bambini anche io avevo paura del buio: chi l’avrebbe mai detto che vi avrei lavorato dentro? Ricordo che da piccola tenevo gli occhi fissi sugli angoli scuri della mia stanza e iniziavo ad immaginare cose spaventose che non erano realmente lì.

 

“Chi ha tanta immaginazione, ha anche tanta paura” mi ripeteva sempre mia madre. Poi iniziava a spazzolarmi i capelli, cantava una ninna nanna e io mi addormentavo immediatamente. Adesso la mia immaginazione si è affievolita con l’esperienza, e così anche la paura che possa succedermi qualche cosa. Perché? Perché non posso permettermi il lusso di avere paura, o non sarei brava nel mio lavoro.  Anche se a distanza, riesco a sentire alcune ragazze che si fanno coraggio a vicenda prima di avvicinarsi sotto la luce: novelline, penso.  Verso le undici e cinquanta si presenta il nostro capo e ci raduna tutte: ci chiama le sue “Mattonelle”, dal nome della nostra postazione sul marciapiede. Io per esempio sono la mattonella numero trentasei ed è lì che ogni sera sono costretta ad aspettare in piedi. Il capo dice che stasera alcune di noi devono aiutare le ragazze nuove ad ambientarsi e presentarle ai clienti più frequenti: avvocati, dottori, finanzieri. Oh, e senza dimenticare il sindaco. È grazie a lui se noi possiamo stare ancora qui. Mi viene affidata una ragazza di nome Bambi e capisco che si chiama così per i suoi occhioni da cerbiatto. Mi sta accanto tutta la sera, mangiandosi le unghie e controllando l’orologio nevroticamente.

“Come ti chiami?” le chiedo dopo una ventina di minuti.

“Bambi!”

“Intendevo come ti chiami realmente?”

Esita qualche secondo e poi risponde: “Sarah…”

“Quanti anni hai, Sarah?”

“Ne ho compiuti sedici la scorsa settimana.”

Vedo una macchina nera all’orizzonte e capisco che si sta avvicinando alla nostra postazione. So che il capo vorrebbe che introduca al cliente la nostra nuova ragazza, ma mi basta un ultimo sguardo ai suoi occhi terrorizzati per agire di conseguenza: apro la mia borsa nera e tiro fuori il portafoglio. Dentro trovo i soldi che ho fatto la sera scorsa; senza pensarci due volte li metto dentro la mano di Sarah, e gliela chiudo con forza in un pugno.

“Sono cinquecento euro: prendili e vattene!”

Lancio un’occhiata alla macchina che si avvicina sempre di più a noi fino a che non si accosta; quindi guardo la ragazza tremante, ancora davanti a me, e urlo: “Ho detto vattene! E non tornare!”

Poi mi giro verso l’uomo che ora ha aperto la portiera, facendomi segno di entrare. Mi siedo sul sedile, fingendo uno dei miei soliti sorrisi, e partiamo. Dal finestrino vedo Sarah che corre via e dentro il mio cuore inizio a piangere, desiderando che qualcuno avesse fatto così con me quando iniziai a fare la prostituta.

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