Le pietre parlanti di Lorenzo Reina

(Carmelo Fucarino)

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C’è a New York un luogo eccezionale che è denominato Casa Italia. È una costola della gloriosa Columbia University, uno dei più prestigiosi santuari della cultura americana. Per chi si reca nella Big Apple piace fare una visita a quelle sale, illustrate da opere e mostre italiane, piace sfogliare i volumi della ricca biblioteca. È un riconoscimento al Colombo italiano e alle radici che legano il nuovo Continente all’Italia e ai tanti emigrati, oscuri ed illustri, che con la loro opera, di semplici operai e artigiani o di grandi uomini di letteratura, di scienza, di politica e di giustizia hanno contribuito a rendere grandi e forti gli USA. E grande merito si deve alla direzione di Barbara Faedda, alacre sorriso di Sardegna, che dedica tutti i mesi dell’anno ad organizzare corsi di lingua e letteratura italiana, seminari e conferenze, concerti e mostre, permanenti o non, un’intensa e continua immersione nell’eccellenza dell’arte e della cultura italiana. La mia soddisfazione quest’anno è doppia, perché, in collaborazione con The Italian Accademy of Columbia University, il magazine i-italy e altre gloriose istituzioni, l’Italian Cultural Institute del nostro Governo in Park Avenue a New York ha voluto celebrare il 2013 Year of Italian Culture, istituendo anche dei concorsi ed assegnando l’Award “Young Italian Filmmakers 2013” Winners allo straordinario documentario di Davide Gambino “Pietra Pesante”, prodotto dall’Istituto Sperimentale di Cinematografia di Palermo. Soggetto del documentario del giovane palermitano è un’esperienza artistica unica ed eccezionale nella nostra Sicilia, le pietre parlanti che vivono a cielo aperto e la raccolta museale di Lorenzo Reina. Bisogna salire su quella montagna, in contrada Rocca, che domina su S. Stefano di Quisquina, per scoprire il luogo delle meraviglie, immaginate, strutturate e realizzate in una spianata incombente dal cielo nel vuoto, una vasta area di manufatti d’arte che hanno per protagonista la pietra, quella rozza e ruvida e non lavorata, ma anche quella strutturata e levigata.

La vasta sala delle esposizioni è anche un semplice luogo di sosta e di ricreazione, ma connota con la sua struttura lignea, con gli oggetti, con i pannelli allusivi all’arte normanna l’originale visione dell’artista che si è voluto sbizzarrire nell’invenzione di spazi e situazioni e pressanti e conturbanti citazioni. Andando verso il lato a strapiombo della montagna, preannunziato da un volto straordinario che si esprime attraverso citazioni di Munch e delle maschere nude pirandelliane, sorprende il teatro. Quello di Siracusa è lo splendore secolare dell’opulenza della città metropoli di Sicilia, qui lo scoscendimento è chiuso da pietre e massi informi, discontinui e a secco, e la cavea si adagia su un impiantito di pietrisco di nera lava segnato, nella ricreazione della costellazione di Andromeda, con novantanove sedili nella forma complessa di doppia stella e una lastra sacrificale al centro. I biglietti invece del numero dovrebbero essere una mappa con il nome della stella assegnata allo spettatore. Ma il miracolo è un altro, la scena si precipita nel vuoto, segnata da due rudi pilastri, si staglia tra il nero del piano e l’azzurro diurno o il nero della notte trapunta di stelle. Bisogna esserci per provare il brivido di questo salto nel nulla, tra essere e non essere in divenire. Non voglio dilungarmi sul complesso polifunzionale, che prevede un altro grande spazio teatrale chiuso alle intemperie e in fase di ultimazione, la fattoria con superbi cavalli e timidi asini e pecore con annessa fabbrica artigianale ed ecologica di formaggi (secondo le interessate norme europee). Perciò l’indicazione di “Fattoria dell’Arte” per la vasta area di fruizione artistica. Il clou di tutto il progetto è l’arte di Lorenzo Reina, chiusa in un solido poligono di pietra di forma federiciana. Stupisce e strabilia che un pastore di un luogo così sperduto e isolato dal mondo del consumo e della follia abbia potuto realizzare simili stilemi e letture d’arte. Il pensiero e il proposito sono resi forma in un connubio ideale tra classico e moderno, un insistere su un codice espressivo che vuole realizzare la visione dell’oggi attraverso le attivazioni classiche e il materiale unico, il più antico ed insostituibile del mondo, la pietra. Quella esplosiva modernità di forme e allusioni è assolutamente lontana dai canoni di certa arte odierna. Si poteva immaginare in un ex-pastore l’eterna piatta ripetizione di pop art, l’espressione povera di segni spesso volgari e popolari. NO, c’è altra cifra segnica nell’invenzione di Lorenzo Reina. Nelle sue realizzazioni, nelle sue performance artistiche, che hanno avuto l’onore del Padiglione Italia della 54 Biennale di Venezia e della Sala Nervi con il titolo “Lo stato dell’arte nel 150° dell’Unità d’Italia” (17 dicembre – 30 gennaio 2011, della quale taccio la cura di Vittorio Sgarbi, che per il tipo di suo presenzialismo gridato potrebbe qui risultare negativa), c’è la cultura millenaria di queste colline e di questa terra di nepitella, di asfodeli e mandragora, c’è una stratificazione culturale che strabilia, anche quando si avvia con lui un colloquio, per la sua padronanza delle tendenze artistiche moderne. Da questo incontro mi sono trovato arricchito e scosso per la pochezza delle mie riflessioni sull’arte e per l’inadeguatezza del mio classicismo che talvolta rimane epidermico e non sa cogliere le ”interiora”. È una sua realizzazione, il calco in bronzo dell’interno svuotato di una pecora, sospesa nell’aria, l’aspirazione a scavare all’interno della vita e della morte che ne complica la comprensione e la sintassi.

 

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Post-scriptum: di Lorenzo, con definizione immaginifica “l’ultimo pastore tra le nuvole”, si è occupata nel 2012 la giornalista Ilaria Grillini della Vita in diretta e già nel 2008 Raitre gli ha dedicato un documentario nel suo magazine dal titolo criptico Geo & Geo.

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