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(Aurora D’Amico)

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Ogni mattina qui è la stessa storia: mi trascino giù dal letto, sciolgo la mia lunga treccia scura e chiudo le tende della finestra di casa. Poi vado in cucina e fisso il pavimento per un paio di minuti, sobbalzando ad ogni rumore che proviene dall’esterno e pregando che non sia mai abbastanza vicino. La mia domanda è sempre la stessa; ma anziché immaginarne la risposta, fantastico su come potrebbe essere la mia vita se quella domanda non dovesse esserci affatto. Se fossi ricca, penso, avrei così tante case da non dovere essere costretta a vivere nella stessa per più di un anno. Mi piacerebbe, inoltre, imparare a guidare l’automobile. Qui non ne ho mai avuto l’opportunità e anche se ho solo sedici anni, so che non potrò mai averla. Mi alzo dalla sedia perché, come direbbe mio padre, pensare troppo può farmi male. Così preparo una tazza di tè, mentre aspetto con ansia che i miei fratelli tornino a casa. Poi un altro rumore prorompe fuori della finestra e la tazza bollente che tenevo in mano si frantuma per terra, bagnando tutto il tappeto.

“Ottimo” penso. Ma almeno ho trovato qualcosa da fare e per un attimo riesco persino a dimenticare dove mi trovo. Raccolgo i pezzi e provo ad asciugare il tappeto, ma risulta un’impresa levare la macchia che si è creata. Quando non devo occuparmi della casa e dei miei fratelli, adoro studiare i libri di storia di mio padre. Anche se non mi è permesso leggerli, ogni mattina ne approfitto, essendo sola in casa, per prenderne uno dallo scaffale e sfogliarlo con cura. La storia dell’antica Grecia è la mia preferita: più e più volte ho letto di filosofi e astronomi greci che con i loro studi hanno posto le basi per le credenze moderne. Ma la storia più affascinante è quella di Ipazia d’Alessandria, una donna che non ha mai temuto di mettere a confronto le sue idee con quelle dei grandi uomini del tempo: e con che coraggio camminava a testa alta per la città, nonostante conoscesse i giudizi della gente! Ed eccola di nuovo qui: la domanda che mi bombarda il cervello, senza lasciarmi in pace. Quella stupida domanda che mi fa venire voglia di urlare, di rompere qualcosa o addirittura di uscire di casa. Ma che dico? Sarebbe solo una follia. Così chiudo il libro con un gesto deciso e lo poso nuovamente sullo scaffale a cui appartiene. Poi mi guardo allo specchio: una ciocca di capelli fuoriesce dal mio velo e so che se mia madre fosse qui mi direbbe, a differenza di mio padre, di lasciarla stare. Ma faccio ciò che è giusto per mio padre e la rimetto dentro; d’altronde se anche mia madre gli avesse dato ascolto, forse sarebbe ancora qui e forse non sarebbe stata lapidata in pubblico. Un altro rumore violento mi riporta al presente, e questa volta so che è più vicino. Poi sento qualcuno buttare giù la porta di ingresso e le mie ginocchia iniziano a farsi sempre più deboli fino a perdere completamente l’abilità di reggermi in piedi. Crollo per terra stanca e arresa alla realtà in cui vivo. Prima di scomparire per sempre, mi torna in mente quella domanda con cui mi sveglio al mattino e con cui sono costretta ad addormentarmi la sera, e penso: quanto diversa sarebbe la mia vita se non fosse toccato proprio a me di nascere qui, in Iran?

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