La fiaba di Natale al Massimo

(Carmelo Fucarino)

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Quello dello Schiaccianoci è ormai l’annuale appuntamento natalizio del teatro Massimo dal 2011, quello mancato di Luciano Cannito rovinato dallo sciopero. Accanto al Corpo di Ballo e ai danzatori solisti del Teatro Massimo due coppie di eccezione, l’étoile russa Maria Yakovlena dell’Accademia Vaganova, passata per il Corpo di Ballo del Mariinskij e dal 2010 principal dancer alla Staatsoper di Vienna, e Alessio Carbone, già allievo della scuola di ballo alla Scala e dal 2002 primo ballerino all’Opéra di Parigi. Saranno in buona compagnia nei ruoli con la popolarissima Ashley Bouder, principal dancer del NYC Ballet e Rezart Stafa, ballerino albanese. Li ha magistralmente diretti assieme all’orchestra il maestro Alexander Titov, li ha guidati la regia e la coreografia di Amedeo Amodio, lo splendore delle scene e dei costumi è stato realizzato da Emanuele Luzzati.

Assolti gli obblighi di tabellone, non mi trattengo sulla varietà infinita dei ritmi, sul caleidoscopio di motivi che accarezzano l’animo, né riprendo gli elogi per le performance dei vari artisti (quelle sei danze del Divertissement con il Trepak o il Valzer dei fiori, il Pas de deux, o l’Apoteosi finale), perché tutti i passi sono notissimi e stupendi, i motivi di tanti spot. Basta invece immergersi in quel flusso continuo che travolge e stordisce. Soltanto qualche riflessione personale sul balletto “fantastico”, liberamente ripreso dalla favola di Ernst Hoffman, orrida e truculenta proprio nello stile delle fiabe per bambini (liberamente tratto anche da Alexandre Dumas nel 1844). Sono ormai imprescindibili le realizzazioni teatrali multimediali, Shakespeare subisce da anni l’oltraggio di istallazioni e modernizzazioni fuori ogni razionale giustificazione. Anche nella sacralità della scena del teatro greco classico di Siracusa, treni sbuffanti e SS naziste hanno imperversato anche ai tempi di un severo studioso di classicità come Giusto Monaco. Perché altra cosa sono la filologia testuale e l’archeologia museale, altro momento è lo spettacolo teatrale offerto ad una platea eterogenea, fatta sia di cultori o conoscitori dei testi originali, sia pure e soprattutto di generici spettatori, semplici fruitori di arte, si badi però, di Arte, secondo l’antico stilema ars causa artis. Il Teatro Massimo, consacrato esclusivamente alla lirica, ha visto dall’apertura della nuova era tante mirabilia di realizzazioni sceniche. A proposito, con tanti cavalli di scena non ho visto di recente a Palermo un cavallo vero, come nel teatro sommo milanese. Il cavallo silhouette di scena, stilizzato e colorato, dato il suo passaggio di fiaba, mi è sembrato però tanto suggestivo che ho voluto riprenderlo nella testata di questo blog. Ma torniamo alle intrusioni multimediali, ormai di uso corrente, quasi di obbligo per sentirsi soddisfatti e à la page. Non mi riferisco qui all’attualizzazione dei costumi e degli ambienti o alla eliminazione di qualsiasi segno scenico. Come si fa a non infilare sul palcoscenico qualche bel filmatino, non importa se di una mortifera prosaicità, di una vuotaggine stordente? Oppure ad introdurre sibili e sciacquii esilaranti o orrende musiche estranee ed inopportune all’azione rappresentata. Tutto questo per dire che la realizzazione scenica di questo Schiaccianoci è stata di una stupenda levità, quel tocco di leggerezza che ti fa sentire la magia sognante della favola. Discreta la farsa clownesca dell’ouverture, come la vocetta surreale, oppure lieve e carezzevole quel coro di voci bianche, apparso e sparito quasi per incanto. Non parlo del fatto spudoratamente personale, l’odore della polvere da sparo che come le magiche madeleine di Proust ricreava in me altre sinestesie puerili, i botti della striscia rossa dei pistolini comprati nel giorno della Fiera, o quel cavallo che in allegra danza beava la vista al ritmo di galoppo di Pëtr Il’ič Čajkovskij, l’autore delle sinfonie della mia età romantica (non mi stanco ancora di ascoltare l’adagio della n. 6, la Pathétique). Era tutto il mondo coloratissimo del sogno (a proposito bramo ardentemente di fare un sogno a colori invece del piatto bianco e nero), quel sortilegio di figure che sfilava danzante e che si scioglieva ai ritmi figurati. E in mezzo a questo splendore di luci e di suoni e di colori, quel gioco sottilissimo quell’esserci nel sogno, questa volta in bianco e nero, la grazia evanescente delle ombre (lode per la delicatezza dell’impianto e la discrezione dell’intrusione a Gioco Vita e ai realizzatori di L’Asina sull’Isola). Mi sono proiettato nel gelido 18 dicembre 1892 a San Pietroburgo in piazza del Teatro, lungo il gelato canale della Neva, in una notte di tormenta di neve (l’incanto della Danza dei fiocchi di neve) e ho visto la piccola Clara in quella vigilia di Natale, la sfilata dei doni e quel soldatino-schiaccianoci, rotto dal solito fratellino dispettoso. L’angoscia la trasporta in un sogno horror, assai meno horror del macabro e terribilmente cruento originale, popolato di topi divoratori con il loro re (quante scene simili di film del terrore!). Tutto questo mondo di angosce e di paure esistenziali passa nella coreografia di Marius Petipa e nasce il miracolo di questo scavo nell’Es, questa favola per bambini che da 121 anni ha turbato i sensi di tanti grandi. Quello strumento, la prosa quotidiana di una società agricola delle noci, frutto di Natale, si trasforma in punitore delle nostre angosce e ci trasporta nel Nirvana orientale, ove la gioia del mangiare diventa il Regno dei dolci e della Fata Confetto. La resa di Amodio ha voluto ricreare questo sogno di una bambina, nella evanescenza tra sogno e realtà dolorosa. Ricordo quel primo simbolismo pascoliano, doloroso e consolatorio, ma non compreso alle scuole elementari, anche perché svelato dal compassionevole titolo Orfano:

Lenta la neve fiocca, fiocca, fiocca.
Senti: una zana dondola pian piano,
un bimbo piange, il piccol dito in bocca;
canta una vecchia, il mento sulla mano.
La vecchia canta: intorno al tuo lettino
c’è rose e gigli, tutto un bel giardino.
Nel bel giardino il bimbo s’addormenta.
La neve fiocca lenta, lenta, lenta.

Il liquido sprofondare nella liberazione onirica, ove quello che ci tormenta si scarica nella trasposizione surreale del sogno. La fiaba diventa la realtà esorcizzata, quella che vorremmo scacciare dai nostri incubi diurni.

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