La festa degli altri

(Carlo Barbieri)

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Il botto improvviso di un tappo che saltava e uno scoppio di grida fecero sussultare il bambino che cominciò a piangere disperatamente. La giovane mamma coricata accanto a lui se lo strinse al petto. – Che cosa è stato? Il marito l’abbracciò. – Niente amore mio, niente, sembra che qua fuori ci sia una festa. Cerca di dormire, che sei sfinita. Lei chiuse gli occhi segnati da due profonde occhiaie, poi sospirò e li riaprì. – Non ce la faccio. Troppi pensieri. Guarda, si è calmato. Non è bellissimo? Lui allungò un mano e gli sfiorò la testa. –È il bambino più bello del mondo.

– Ma che festa è? Che vedi?

 

L’uomo si alzò e andò a sbirciare fuori.- C’è un bel po’ di gente vestita bene… confusione, bambini che corrono, tante luci… aspetta aspetta, mi pare che stiano venendo qui. Lei sbarrò gli occhi e sorrise – Qui da noi? Vengono a vedere il nostro bambino?

Il nonno aveva tentato come ogni anno di mettere i regali vicino al presepe, ma sua figlia li aveva spostati anche questa volta sotto l’albero. “Papà come te lo devo dire che la tradizione è questa”, gli aveva detto. Tradizione un corno. Per lui la tradizione era il presepe e basta. Ogni anno il compito di prepararlo era suo, e lo prendeva molto sul serio. Per esempio lui non lo faceva mai uguale a quello del Natale precedente, nossignori. Le statuine erano sempre le stesse, ci mancherebbe, ma quasi tutto il resto era sempre nuovo, frutto delle sue mani, e questa volta aveva superato se stesso. Un bel cielo blu scuro con centinaia di stelline luminose fatto di carta bucherellata dietro la quale aveva acceso una lampadina. Al buio l’effetto era bellissimo. E le montagne di cartapesta che sembravano vere, e quel capolavoro di mulino, con l’acqua che muoveva la ruota. E la bottega del fabbro, e quella del calzolaio. A parte le montagne, tutto il resto l’aveva fatto con il sughero. Più di un mese, ci aveva messo, chiuso in cantina per diverse ore al giorno, deciso a non fare vedere il risultato a nessuno prima che tutto fosse finito e montato.  E finalmente aveva approfittato della domenica prima di Natale, in cui tutta la famiglia passava la giornata dai consuoceri, per preparare il presepe nel solito angolo del salone. Prima le montagne, poi le casette, il mulino, il pozzo… poi la grotta-capanna, che era l’unica parte dello scenario che non cambiava mai. Una grotta con l’entrata chiusa da un accenno di muretto e uno sbarramento di rami, come certi rifugi di pastori che si vedevano ancora nelle zone più interne della sua terra. Ogni anno, se fra gli invitati c’era qualche nuovo parente acquisito, lui gli spiegava che “La tradizione parla sia di capanna che di grotta, ma non c’è contraddizione. Era una grotta-capanna.”. Poi era arrivato il momento di sistemare le statuine. Il fabbro con il martello alzato sull’incudine, il calzolaio curvo sulla scarpa tenuta fra le ginocchia, la donna vicino al pozzo con la mano sul fianco e la giara sulla testa che ogni volta era un problema perchè era un po’ difettosa e non voleva saperne di stare in piedi, i cammelli, i pastori con le pecorelle. Naturalmente sempre le statuine più grosse davanti e quelle più piccole dietro, per dare l’impressione della lontananza. Poi il Bambinello, Maria e Giuseppe, il bue e l’asinello. E alla fine era venuto il turno di quelle difficili da collocare, lo “Spaventato” con le mani alzate al cielo e i Re Magi. Lo Spaventato ogni volta non sapeva dove metterlo perché non era mai riuscito a scoprire che cosa lo spaventasse, e così lo aveva sistemato vicinissimo a un cammello che sembrava volesse investirlo. Quella dei Magi invece era una faccenda di precisione perché li collocava lontano, fuori dal presepe, e li spostava ogni giorno un po’, sempre della stessa distanza, in modo da farli arrivare a destinazione per l’Epifania.  Sì, gli era venuto veramente bene quest’anno il presepe, ed era convinto che se ne sarebbero accorti tutti. Ma quella domenica sera quando i suoi erano rientrati a casa non era andata come si era immaginato. Suo genero aveva detto “Bello, anche quest’anno abbiamo il presepe” mentre ci passava davanti ed era andato a sedersi davanti alla TV; sua figlia aveva commentato dalla porta con un sorriso “Ecco perchè non sei voluto venire, avevi i tuoi progetti segreti, eh? Bellissimo” e si era infilata in bagno. I due nipotini gli avevano dedicato invece due minuti prima di rinchiudersi nelle loro stanzette. Luca gli aveva chiesto solo “Ma l’acqua gira con un motorino?” e non era sembrato neanche troppo interessato alla risposta, mentre Elena aveva guardato tutto attentamente senza una parola, poi aveva emesso la sentenza: “L’albero però è più bello, per questo ci si mettono i regali sotto”. Ed era arrivato Natale, poi l’ora di pranzo e con essa gli invitati. Ogni volta che suonava il campanello il nonno si piazzava vicino al presepe ma gli eccitatissimi e vocianti ospiti si scambiavano abbracci e baci con gli altrettanto eccitatissimi e vocianti padroni di casa, si liberavano rapidamente di cappotti e giacconi, gli davano un rapido bacio – “Come stai?” “Sempre in gamba, eh?”- e prima che lui potesse aprire bocca si erano già precipitati a mettere qualcosa sotto l’albero. Poi era seguita la solita rappresentazione di ogni Natale: tanta gente attorno alla tavola, splendidamente apparecchiata e allungata per l’occasione con l’aggiunta di prolunghe che passavano il resto dell’anno in cantina, un numero enorme di portate, battute risate e grida in un crescendo proporzionale al vino bevuto, complimenti esagerati per i più piccoli, zii che pretendevano bacini da nipotini recalcitranti fra urla e disubbidienze commentate con benevola ipocrisia -“Oggi i bambini sono tutti così”- in attesa delle feroci critiche da farsi in separata sede. E finalmente, dietro l’insistenza dei più giovani, sua figlia aveva proposto “Apriamo i regali?” provocando un terremoto di sedie spostate e una carica selvaggia in direzione dell’albero. Il nonno si era alzato per ultimo e li aveva seguiti fermandosi però, per protesta, accanto al suo presepe. Sua figlia prendeva i pacchi coloratissimi a uno a uno e, se il destinatario era uno dei bambini, non faceva in tempo a leggerne il nome che il regalo le era già stato strappato di mano dall’interessato sordo al solite esortazioni del tipo “Come si dice alla zia? Graaazieee”.Pochi minuti dopo tornò una calma relativa. Anche quest’anno il Natale era stato seppellito sotto una montagna di carta regalo.

La donna ripetè la domanda: – Allora, vengono a vedere il nostro bambino?

– No, temo di no, Maria.

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