I SESSANT’ANNI DELLA TELEVISIONE

( Daniela Crispo)

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“La Rai, Radio Televisione Italiana, inizia oggi il suo regolare servizio di trasmissioni televisive”. Queste parole pronuncia la prima annunciatrice, Fulvia Colombo, il 3 gennaio 1954. Dell’annuncio non abbiamo la registrazione originale, perché allora non si pensava a conservare, ma una del 1964 rifatta per un documentario di Ugo Zatterin. Da quel giorno l’Italia ancora afflitta dai problemi della ricostruzione postbellica guarda al mondo con speranza e fiducia di migliorare la propria condizione. Ai giovani non suggerisce nulla o quasi l’anniversario, ma ai sessantenni e cinquantenni rievoca l’aprirsi di nuovi orizzonti culturali, l’input a leggere ad informarsi a comprendere la complessità e le interconnessioni culturali tra i popoli. Perché al contrario di oggi le trasmissioni suscitavano curiosità, facevano venire voglia di comprare e leggere il libro da cui era tratto lo sceneggiato o il film, di andare a teatro per vedere l’attore ammirato nei programmi teatrali puntualmente trasmessi in diretta. La Rai è stata veramente una grande industria culturale.

Il suo tono era medio-alto in sintonia con un programma di acculturazione che sfruttando le caratteristiche proprie del mezzo di comunicazione si rivolgeva anche ai meno colti, guidandoli attraverso l’ampliamento del linguaggio alla comprensione di testi ed opere, che altrimenti avrebbero ignorato. Dalla promozione culturale a quella sociale. Ma il tempo cambia e trasforma ogni cosa. Oggi non si può più sostenere che la Rai sia la più grande industria culturale o che abbia un valore formativo di rilievo. La pubblicità la rende serva dell’audience. Deve offrirsi ad un pubblico il più ampio possibile, ma non per migliorarlo culturalmente, ma per stimolarne i desideri. Quindi vale la pena ricordare la ricorrenza anche per pensare al futuro, più che a conservare ad innovare con coraggio.

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