RILEGGENDO IL DON CHISCIOTTE

(Gianfranco Romagnoli)

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Una estrema lettura del mito della cavalleria e del disgregarsi dei suoi valori in un mondo che, dopo la svolta rinascimentale, sta rapidamente e irrimediabilmente cambiando, è data dal romanzo di Miguel de Cervantes Saavedra El ingenioso hidalgo Don Quijote de la Mancha (in Italiano tradotto malamente Don Chisciotte), un’opera che è giustamente ritenuta il capolavoro per eccellenza della letteratura spagnola. Scritta in due parti, apparse la prima nel 1605 e la seconda nel 1615, riprende sotto una nuova ottica sia la letteratura cavalleresca che quella picaresca.

Don Quijote non è quel personaggio assurdo o ridicolo, il “cavaliere dalla triste figura” tramandatoci da una interpretazione farsesca e superficiale peraltro favorita dal sense of humor dell’Autore, ma in lui Cervantes incarna la figura dell’appassionato sognatore, assimilabile a quella dei fondatori di religioni. Nella sua “pazzia”, mosso dall’amore per la giustizia, egli si vota a combattere le iniquità dell’egoismo umano che domina il mondo, lanciandosi in stravaganti avventure la cui fine ingloriosa gli fa sentire unicamente il dolore dell’ideale infranto. Le sue dure esperienze di vita conferiscono all’immortale opera cervantesca un tono malinconico, al quale fa da contrappunto salvifico Sancho Panza, che con il suo buonsenso popolano e il suo umorismo nativo è il tipico personaggio del gracioso della commedia aurisecolare spagnola (non dimentichiamo che Cervantes fu anche autore di teatro).

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Sembra peraltro, in questa malinconia che pervade l’opera, di ravvisare una identificazione dell’autore con il personaggio, avente come motivo di fondo le sue vicissitudini. Animato da schietto entusiasmo per gli ideali nazionalisti e di restaurazione cattolica, cui si ispirava la politica ispanica, Cervantes partecipò con ardore combattivo alla battaglia di Lepanto (1571), riportando una ferita alla mano sinistra, che gli costò l’amputazione dell’arto. Di quella menomazione si mostrò sempre orgoglioso, tanto da affermare, nel Prologo della Seconda Parte del Quijote, che «se per assurdo gli fosse concesso di scegliere, sceglierebbe ancora di trovarsi nella mischia di Lepanto piuttosto che sano da ogni ferita senza aver preso parte ad essa, [poiché] le ferite che il soldato mostra nel volto e nel petto sono stelle che guidano altri al cielo dell’onore». Egli è un eroe di nuovo tipo, che nelle avversità della mutilazione subita, della successiva lunga prigionia ad Algeri (con la serenità che è dei grandi spiriti Cervantes ammetteva che nel carcere «aprendío a tener paciencia en las adversidades») e dell’iniziale misconoscimento da parte della comunità letteraria e del pubblico (che invece tributava grandi riconoscimenti ed onori ad autori contemporanei spesso meno grandi nel Nostro),«si dà alla conquista dell’anima propria, alla coltivazione di un albero segreto che sorgerà tutto dentro di lui e sboccerà improvviso con tutti i suoi frutti: un mondo vivo, cui non manca nulla per essere eterno» (U. Gallo, Storia della letteratura spagnola). Questo nuovo, singolare eroismo egli lo trasfonde integralmente nel suo personaggio, sempre pronto, malgrado le delusioni, a riprendere le armi contro il mondo a difesa dei suoi ideali. Così, anche nell’ “amor cortese” di Don Quijote per Dulcinea, prescindendo dai tratti caricaturali che lo stesso Autore dà alla rustica ispiratrice di questa idealizzata figura, è stato ravvisata da José Luis Gonzales Quirós l’immagine della patria: da ciò deriva che servire la patria è l’ideale più alto che compete a un cavaliere. Con la sua creazione immortale, Cervantes ci trascina nel vortice di un’avventura metafisica, il cui protagonista, immagine speculare di un’iperbolica mescolanza di follia raziocinante e di saviezza delirante, lotta per l’affermazione di ideali di respiro universale, quali l’affermazione della giustizia, il trionfo dell’onestà, il riscatto degli oppressi, il culto della bellezza, la conquista di un equilibrio interiore. Le rovinose cadute nel reale non incrinano mai la fede che il cuore immacolato del “Quijote eterno” nutre per i citati ideali. Anche se un mondo ostile lo sbeffeggia, egli non alzerà mai bandiera bianca, incarnando, come afferma Luciano Codignola, «una libertà tutta moderna, così assoluta, da essere ancora oggi attuale, post-razionalista».Dal personaggio di Don Quijote discende la categoria del Quijotismo, così radicata nell’anima spagnola da informarne tutta la passata storia gloriosa: è infatti soltanto alla luce di esso che si possono leggere e comprendere correttamente, ad esempio, le imprese dei Conquistadores i quali, pochi e soli contro nemici infinitamente superiori e vincendo con la costanza terribili difficoltà ambientali, costruirono la grandezza della loro patria dando vita all’ultimo impero universale della storia: il mondo dell’hispanidad, universo politico-culturale di cui la Sicilia fu parte e conserva tuttora parte importante dell’eredità.

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