Ancora sulla lingua italiana

(Carmelo Fucarino)

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Angelo Musco

Avevo promesso che sarei tornato sulla questione della lingua e sul dialogo senza moderatore tra il tecnico della lingua Tullio De Mauro e il praticante di lingua e falso dialetto siculo Andrea Camilleri (A. Camilleri – T. De Mauro, La lingua batte dove il dente duole, Bari, Laterza 2013). Oggi mi sollecitano i drammatici risultati dei test Ocse-Pisa 2012, in primo luogo per la posizione dell’Italia e soprattutto per la Sicilia buona penultima nella graduatoria, soltanto prima della Calabria. La tragedia sta nel fatto che, se i test sono affidabili nella loro articolazione dei quesiti e su ciò non posso ciecamente giurarci non avendoli letti, i nostri quindicenni permangono penultimi al mondo per il puro e semplice «saper leggere e far di conto».

Tullio è fratello di Mauro De Mauro, più noto alle cronache nazionali, perché martire del giornalismo di trincea in una terra che forse ben poco c’entrò con la sua morte se non la mano dei carnefici, lontani invece e potentissimi i mandanti. Ma resta pur esso uno dei tanti misteri siciliani dall’inizio della Repubblica e dello Statuto, a cominciare dalla strage di Portella della ginestra e da quel cortile di Castelvetrano in cui fu esposto in una posizione del Cristo morto di Mantegna e di Fidel Castro il corpo del bandito Giuliano. Tullio è stato per anni professore di linguistica generale, suo capolavoro la Storia linguistica dell’Italia unita (prima edizione Laterza, Bari 1963), ma nel libro tornano soprattutto i ricordi della sua terra napoletana. Camilleri, l’inventore del falso dialetto siciliano, rinverdisce anche lui i suoi ricordi di infanzia, tanto lontani, io ritengo, dopo decenni vissuti all’aria del Continente che stupisce che possa ancora conservarne tanti, nelle sedimentazioni di lingua e fatti della sua profonda Sicilia africana. Un dialogo alla buona, senza grandi pretese o sistemi di platonica memoria, perché qui manca la grande scenografia del maestro, il platano del Fedro platonico o quello meno nobile della chiesa di Ortis ove leggeva le vite di Licurgo e di Timoleone. Forse poteva starci l’ombra protettrice del ficus di villa Garibaldi in piazza Marina, l’albero dei 150 anni. Ma forse anche qualche interlocutore più addentro nelle cose dialettali, mi immagino un Cuticchio e un venditore di mussu, quarumi e frittola al Capo. Così mi pare il dialogo di due vecchi compari che chiacchierano in un non-luogo della cultura, diciamo al baretto della libreria Feltrinelli, De Mauro ottantunenne, Camilleri ottantottenne. Non è solo l’assenza di scena e di ambiente a rendere informe il dialogo, a rendere a pieno la sua finzione, è soprattutto l’assenza di una vera questione unificante. Il libro è infatti articolato in sette sezioni eterogenee e un epilogo. I titoli ad effetto intendono delimitare l’ambito della chiacchierata. Un campione già il primo: «l’albero è la lingua, i dialetti sono la linfa» oppure «Scrivila come l’hai raccontata a me» o «Un italiano in cui non si dice mai “dare”». Per di più le lunghissime citazioni virgolettate sconfortano e indicano chiaramente la chiave di una finzione assoluta, della traccia razionale di un questionario prefabbricato, con quesiti che possono nascere soltanto da una conversazione fittizia, da un questionario da redigere a tavolino. In questa struttura incongrua che avrebbe voluto dare l’impressione del provvisorio e del naturale di una conversazione a due, ne è venuto fuori un coacervo indistinto di battute e di riflessioni, che sanno di rievocazioni nostalgiche, in un flusso che si estrania e divaga, anche se ciononostante non conserva quell’incanto che sa dare il poetico flusso di memoria. Ho letto, anche se con calda partecipazione emotiva, la rievocazione di sparsi ricordi di due nostalgici anziani di altri tempi, che si scambiano aneddoti e pettegolezzi di vita quotidiana, esperienze sfasate di decenni e perciò talvolta dissonanti. De Mauro avvia con una citazione di Luigi Meneghello (molti ignoranti si chiederanno chi era costui), Camilleri per conto suo con Pirandello e il dialetto come “cosa stessa” e i ricordi della lingua della “madre” e le su deduzioni da ottuagenario, al quale si adegua il primo con la sua “storia linguistica personale”. Poi la nonna Elvira di Camilleri che gli leggeva Alice, ma anche l’abate Meli. Etc. etc. Con gli incontri e le sorprese linguistiche da grandi, maturi signori affermati, tra grandi uomini di cultura che sono capitati sotto il loro raggio di osservazione (da Ariosto a Manzoni, Sciascia o il Gasmann irato per esempio, e tanti altri), esplicazione di glosse (annacarsi, il solito mòviti e chinnicchienacchi, ma anche Pizzo e Sasso) e le grandi battute ad uso dei fanciulli (p. 15, «Sì, prima era Girgenti, poi divenne Agrigento, col fascismo»). Le tesi tendono a dimostrare che «Eravamo italiani senza saperlo» oppure scendono nel didascalico, «ci sono tanti modi di leggere», «ad alta voce». In linea generale si propende nel credere che l’italiano sia ormai la lingua di tutti, che il dialetto è destinato a scomparire, però con «la speranza e l’augurio che i dialetti non spariscano del tutto» (Camilleri), ma anche con la costatazione che «in fondo ancor oggi buona parte della popolazione sa, è in grado di parlare un dialetto» (De Mauro, p. 124). Ci sarebbe molto da dire sulle reminiscenze di questi due ottuagenari, sulle loro personalissime esperienze di linguista e di uomo di spettacolo, diverse da quelle dei comuni parlanti quell’oggetto misterioso che loro continuano a definire con molta sicurezza “italiano” di tutti gli Italiani. E le deduzioni porterebbero a scrivere un altro saggio da altra personalissima angolazione, quella di tanti parlanti, ma soprattutto scriventi in italiano, che sono rimasti per tutta la loro vita immersi in un ambiente strettamente dialettofono. Perché per tanti siciliani rimasti in loco, fra i luoghi e tipi sfiorati da Camilleri in gioventù e da De Mauro nel suo soggiorno siciliano da prof in un ambiente medioborghese, per tanti siciliani che sono vissuti senza innesti e contaminazioni di altre tipologie dialettofone o di ambiente culturali eterogenei, il dialetto dei ricordi dei due confabulanti è continuato ad essere materia viva, organismo sempre vivo, cioè materia ribollente in trasformazione, un magma che ci ha continuato a permeare e a rendere quel che siamo, siciliani che presumono di parlare italiano, come sento che fa nei suoi interventi fonici televisivi il caro Camilleri (e pure il suo particolare originale inventato Montalbano, siciliano di Roma). Presume di parlare italiano, ma è chiaro ad un linguista che la sua parlata è lontana mille miglia dall’italiano, lingua come espressione fonetica. In lui c’è ancora quella particolare cadenza strascicata del porto agrigentino, condita con qualche sonorità milanese, fiorentina e romana, forse anche veneta. A loro studiosi di lingue astratte e inesistenti vorrei dire di fare una passeggiata per i paesi di Sicilia ed ascoltare i dialoghi che si sperdono nell’aria. Senza intavolare discorsi, perché allora entrerebbe la finzione e la pretesa di voler parlare italiano (con le esilaranti traduzioni dal dialetto). Scoprirebbero che ci sono, sì, italiani, perché nessuno in Sicilia pretenderebbe di essere Siciliano esclusivamente, ma tutti parlano in dialetto, popolo e nobili professionisti, spesso anche i professori in cattedra. Ma come avviene in Francia per il marsigliese del Sud o in Germania per il profondo interno bavarese, tutti parlano un dialetto, senza per questo vergognarsene e pretendere di essere proprietari di un francese di Sorbona o di un tedesco puro. Perciò mi arrogo il diritto di confortare Camilleri, i dialetti in tutto il mondo sopravvivranno, solo che come qualsiasi lingua parlata andranno modificandosi a dispetto degli scrittori che mummificano e musealizzano la “loro” lingua. Moltissimi sono ancora i poeti in siciliano, in genere fra gli incolti, ma non solo, che fanno operazioni linguistiche diverse da quelle di Meli o del fottutissimo Micio Tempio (p. 209), letto di nascosto o proposto in combriccole di “vastasi” (la celebre grandiosa azione degli dei! Di essa una sonora, esilarante lettura in rete, in stretto catanese), diverse dal Nino Martoglio di Angelo Musco. Che sono operazioni culturali costruite e false come il dialetto dei pescatori di Verga, realizzato da Visconti in modo orribilmente incomprensibile pure a noi siciliani di oggi.

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