Luigi Lo Cascio ri-legge Otello

(Carmelo Fucarino)

image

Già l’operazione della lettura di un’opera classica era avvenuta con le Baccanti di Euripide (non vi includo l’ardua prosa di Kafka). L’autore-attore-regista aveva voluto riscrivere con l’ottica e la realtà mediatica il mito, capolavoro unico ed inimitabile del tragediografo ateniese. E l’operazione era riuscita a salvare e immettere nell’affabulazione del teatro moderno un testo che pur nella struttura classica mantiene ancora oggi la sua magia linguistica, proprio perché necessariamente soggetto alla traduzione moderna. Con Shakespeare l’operazione risultava più ardua, sia per la spigolosità del testo inglese, con il suo arcaismo linguistico e con la prolissità delle strutture logiche del “bardo” anche nella sua patria. La traduzione nella nostra lingua elimina certamente la patina arcaica, ma la fedeltà al testo non può cancellare il barocchismo, spesso pesante, un certo andamento raziocinante, che ormai non sopportiamo neppure nel prossimo a noi Pirandello.

Perciò il miracolo di questa rielaborazione del mito del Moro di Venezia, che oggi anche nella realizzazione dell’opera verdiana scaligera, si evita di colorare in nero. Quindi la tirata dotta iniziale sulla negritudine e la “diversità” per la quale Jago si era definito, his Moorship’s ensign, “alfiere di Negreria”, lacerante verso il Labbragrosse (thicklips), e che aveva suscitato scandalo ed orrido disgusto negli USA e un vespaio di ipotesi sul “black” o semplicemente “brown”, la morbosa querelle iniziata da S.T. Coleridge e riassunta da C. Bradley (Shakespearian Tragedy, London, 1957, pp. 163-164) che trovava che «avrebbe avuto qualcosa di mostruoso il pensare che una bella fanciulla veneziana si innamori di un autentico negro». Il libero adattamento di Lo Cascio, Gigi con affetto, è un tipico esempio del miracolo del metateatro sul quale è stata costruita questa azzardosa ri-lettura. Accettabile o criticabile per presunti o reali eccessi, flashback narrativi e innesti “altri”, a patto che questi si ritrovino e stigmatizzino nelle ardite rielaborazioni offerte da professionisti del Nord in altri Otelli e Carmen ed altre scommesse sceniche, troppo elogiati da critici free lance nostrani. Un saggio di incipit è l’ode al fazzoletto, mentre nella moda corrente dei supporti mediatici scorrono su uno schermo le manipolazioni di cellule della vita (penso). Quel fazzoletto diventa simbolo e uno dei protagonisti che regolano la vicenda, il feticcio che dirige le azioni, fino a diventare sudario funebre a chiusura di sipario. La scena resta essenziale, ma estremamente allusiva e “parlante”, a parte le sedie volanti ormai di rito. Poi l’a-storicità della vicenda, che salta la mediazione della scena teatrale e rimanda a quella Novella settima della Deca terza degli Ecatommiti di Giambattista Giraldi (1504-1573), Cinzio come Apollo e Artemide dal delio Cinto. Perciò diventa, come nel novelliere, “cuntu”, che è l’affabulazione delle nostre nonne siciliane, qui avviata e condotta per tutto il tempo scenico dal soldato narratore, mediatore tra realtà scenica e finzione (i personaggi pirandelliani?). Perciò questo ardito sconcertante scarto tra il dramma che si realizzò un tempo diacronico tra cene e schiamazzi nel mitico Globe Theatre e il palcoscenico del Teatro Biondo con un pubblico più composto e assorto, ove prende vita lu cuntu. Teatro nel teatro di un dramma in cui i personaggi prendono corpo e narrano la loro vita, attraverso una serie di stupendi monologhi, che diventano prove di bravura dei quattro attori, che hanno superato se stessi. Lo snodo di una storia umana rappresentata-rivissuta in quadri che sconvolgono lo sviluppo del divenire cronologico per apparire convulsione atemporale di “memoria poetica”. La provocazione di Otello per la fiamma che incendia la virginale Desdemona, ripresa inconscia delle note eterne dei klea andròn, le lacrimevoli sventure e le egregie imprese, quelle che turbarono i primi palpiti della fanciulla Nausicaa per il vecchio Odisseo, o le pur celebri “le donne i cavalieri le armi gli amori” di quell’Ariosto che campeggia immenso nella fuga sulla luna del furente Otello, diverso dal vanesio Astolfo, alla ricerca del rovinoso fazzoletto e dell’ampolla con le lacrime dell’amata. È la fanciulla votata al tradimento come predice lo stesso padre ammonendo Otello: «Look to her, Moor, if thou hast eyes to see: She has deceived her father, and may thee». Quell’Otello che era stato tragico fino alla follia in quella iterazione di convulse parole e in quel trasalimento furente, pezzo di grandissima bravura del magico Vincenzo Pirrotta. Follia, si badi, diversa dalla parodia comica dell’Orlando che sradica alberi e lancia all’aria armenti, ma resa nello squassare da pathos antico del corpo e dell’anima fino allo sfinimento. Eppure l’impressione che ne ho ricavata è che il vero protagonista è stato il dramma interiore del perverso Jago, un personaggio dimidiato alla ricerca del suo vero essere, se mostro immondo o angelica farfalla. Sì, il bla-bla sul deserto che produce la gelosia, sull’irrefrenabile indomabile “possesso” maschilista che offre la stura alle lamentazioni sui “femminicidi”. Ma se Otello non ha dubbi nella decisione e concede l’ultima preghiera («Have you pray’d to-night, Desdemona?»), il dramma resta invece equivoco e ambiguo nel profondo Es di Jago, senza giustificazioni e senza pentimenti assolutori. Il vero protagonista è lui che manipola e regge l‘azione con la sua viscida perfidia dall’inizio alla fine, il burattinaio, il manipolatore, Satana incarnato che insinua «I am not what I am», serpente che stravolge addirittura le parole di Dio «I am that I am» (Esodo, 3, 14). Lui che dice e dissimula, onesto e perfido fino all’inverosimile («Bontà esser cosa contraria alla coscienza, uccidere per volontà di uccidere»). E in questa identificazione Lo Cascio è stato anche lui mostruoso e geniale. Otello appare oggetto e vittima, capro espiatorio dell’umana crudeltà, dell’esiziale sete di potere. Incapace di discernere: «Mondo infame! Sono arrivato al punto di ritenere mia moglie virtuosa, e di credere ch’ella non lo sia; di ritenere te un uomo onesto, e di credere che tu non lo sia!». E alla fine «I kiss’d thee ere I kill’d thee: no way but this; Killing myself, to die upon a kiss». Ha paura di quel sangue che macchiò in eterno lady Macbeth: «Here’s the smell of the blood still. All the perfumes of Arabia will not sweeten this little hand».  E prima e non ultima in questa straordinaria interpretazione del dramma dell’odio e della dissimulazione dell’insinuante viscido Jago, relegata in un angolo la gelosia tradizionale del Moro, la provocazione della lingua siciliana dei personaggi, sola esclusa la diafana universale Desdemona, unica estranea vittima sacrificale della cattiveria umana, in confronto a tutti gli altri sanguigni coprotagonisti. Probabilmente se ne accorgeranno in Italia, ma in Sicilia il ricorso alla lingua siciliana è stato quasi inavvertito, anzi ha conferito al linguaggio una sua pregnanza, una sua essenzialità che per nulla disturbava nella fonazione e nell’udito. Quel suono caldo e melodioso che ne è uscito, chiaro e senza forzature folcloristiche o idiotismi di stretta marca, non certo dialetto della Kalsa, come qualcuno ha erroneamente azzardato. È il dialetto del siciliano di oggi, non dotto come quello di Meli o maccheronico come quello di Verga, gaglioffo e pornografico come quello di Micio Tempio, criptico e a creazione gaddiana nella strutturazione semantica come l’invenzione di Camilleri. Il siciliano di Otello e di Jago è quello semplice, ritmico e completo, nato dalla commistione tra lingua materna, tramandata da generazioni, e traslitterazione nell’italiano televisivo. È la lingua che Luigi ha praticato e ricorda dentro di sé nelle scorribande scolastiche, prima del salto altrove. È perciò la lingua nuova, processo in fieri, che senti dal barbiere o dal verduraio, che non è più il gergo incanaglito e oscuro di un tempo (si provi a capire l’esperimento dialettale originale di Visconti con La terra trema), ma questa “mescidazione” linguistica che aggiunge all’italiano dei media la icastica, epigrammatica complessità semantica del siciliano, lingua che si è arricchita con tutte le significazioni dei conquistatori, ne ha ricavato semantemi intraducibili, eppure di una chiarezza stupefacente. Questa armonia, questo particolare impasto ritmico linguistico, con il supporto dei versi, endecasillabi ed altri, ha reso miracoloso il comunicare dei personaggi. Un grandioso sberleffo quel “voscenza” di un commiato. Che Shakespeare fosse lo Scrolla-lancia di Messina? A proposito Shakespeare si espresse nel suo dramma con una combinazione di prosa, poesia rimata e versi unrhymed or “blank”, cioè pentametri giambici, come il teatro greco antico aveva usato nei dialoghi il colloquiale prosastico trimetro giambico.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Il nostro sito web utilizza i cookie per assicurarti la migliore esperienza di navigazione. Per maggiori informazioni sui cookie e su come controllarne l abilitazione sul browser accedi alla nostra Cookie Policy.

Cookie Policy