Il quadro nero

(Salvatore Aiello)

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Inaugurazione insolita della Stagione Concertistica 2015 al Massimo con l’opera multimediale per musica e film Il quadro nero ovvero “La Vucciria, il grande silenzio palermitano” di Roberto Andò e Marco Betta, soggetto tratto da La ripetizione del 2008 di Andrea Camilleri che ispirato dalla celebre tela di Renato Guttuso,sostiene: “Un narratore, affissando il quadro, avrebbe materia di scrittura fino alla fine dei suoi giorni”. In questa considerazione e con questo spirito si avviava lo spettacolo preceduto da un prologo in cui si accampava la voce dello scrittore che si avvaleva della presenza colloquiante di Francesco Scianna e Giulia Andò interpreti dei pensieri, degli intendimenti dell’uomo dal pullover giallo e della donna dalla nera chioma, due personaggi centrali del quadro di cui non si conoscerà né la qualità della liaison né i risvolti.

Camilleri sciorinava una lista, un catalogo di frutti, colori e profumi di quello che fu un tempo un mercato storico caro ai palermitani; si affidava altresì alla nostalgia e al rimpianto di un mondo di tinte contraddittorie, fatto di oscurità, buio fitto e luci invadenti usandolo come metafora della straziante fine di una città perduta. Renato Guttuso, in una sua intervista, sosteneva che mentre dipingeva La Vucciria, oggi proprietà del nostro Rettorato, si fosse accorto “Come tutta quella abbondanza di vita contenesse, nel fondo, un senso distruttivo”. Senza che ci pensasse o lo volesse, la terra esalava un senso di morte. Questo l’ordito adottato da Andò che con le immagini scandite da un pendolo, a ricordarci la nostra precarietà, vivisezionava i fili mentali delle figure che via via entravano dentro la tela ma l’apparire e lo svanire sottolineavano la dimensione di ciò che sarebbe dovuto essere e non è avvenuto. Conservo vivi ricordi degli anni ’50; abitando nei pressi di piazza Marina, con la fantasia di bambino pensavo che quel mondo di abbondanza fosse la cifra della rinascita dopo l’orrore della guerra, ma fu solo, come sappiamo, ingenua illusione, una parentesi; l’abbandono e la distruzione ebbero la meglio. Il regista con sottili, lucide analisi ci documentava la Palermo di oggi, impedita dall’afasia dei sentimenti e della parola con stupore; quasi incredulo e forse con la generosa voglia di regalarci ancora qualche scheggia di quella realtà appariscente e contrastante; lentamente introduceva i personaggi il cui numero si faticava a contarli, come i diavoli della Zisa, conducendoci in un thriller fatto di sospensioni ed attese, incredulità ma anche fissità. I personaggi dalla biografia forse travagliata, monotonamente ritmavano il mal di vivere, statue di sale dagli sguardi smarriti, dalla ripetitività imprigionata nel quadro con quella accidiosa idea congenita del thanatos e dell’eros, cifra del popolo verghiano. Andò ci raccontava il non detto, ci spingeva a fissare gli sguardi velati di rimpianto, tumefatti dai loro destini mentre la musica respirava con le immagini senza mai perdere di vista sentimenti, situazioni, allusioni, richiami; spalle che sfioravano altre spalle poiché il tempo e la stagioni hanno scolorato le pieghe dell’anima. Nel finale il varco chiuso regalava a piene mani distruzione, dissolvenza, morte, senza possibilità di appello decretando anche la morte della speranza. Tutto tragicamente precipitava e si frantumava, solo il diritto di esistere veniva reclamato dal latrato dei cani in un mondo ormai disumano ove solo la bestialità contava in un’apocalisse che con le ali del vento aveva spiazzato e spazzato la storia e i sogni di una città, di una Sicilia e forse di un’Italia rimaste solo memoria sulla tela di Guttuso che avrebbe senz’altro gradito questo omaggio alla sua natura morta, lui che proprio si era speso nel Teatro Musicale per ben un cinquantennio dall’iniziale Histoire du soldat del 1940 al Foresta – radice – labirinto del 1987. Marco Betta, in perfetta sintonia con questa atmosfera, dal colore della musica giungeva alla musica del colore, attingendo risorse dalla scienza dell’ars antiqua ricorrendo al conductus profano medievale e con una monodia trenodica si imponeva con la sua sinfonia della vita e della morte respirando e ansimando con le immagini, declinando e scandendo il tempo della nostra smemoratezza. Il suo pannello sinfonico, frutto di dinamiche sottili, prestava voce disegnando ora aree di sospensione ora attraverso quel rumore di ferraglie, cocente tensione per incarcerare con spasmodico slancio, quel mondo che non si voleva lasciare andare dove la partita si giocava tra insularità e carnalità. Il suo Requiem ci raccontava che anche gli dei e il genio palermitano avevano preso le distanze da un popolo sfiduciato e non meritevole. Tonino Battista, a capo dell’orchestra duttile, ha dato una prova impegnativa di consonanza totale con quanto la musica proponeva. Affollato il teatro da tanti palermitani plaudenti e anche da tanti politici che per miopia hanno lasciato che quel luogo, la Vucciria, ventre della Palermo spagnola con le brioches di Cimino di piazza Caracciolo e i gelati di panna di via Pannieri, rimanesse ricordo soltanto per noi anziani, abituati anche al gusto della scorsoniera vietato alle generazioni odierne, vittime inconsapevoli dei fast foods e McDonald’s.

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