LA LINGUA CHE TUTTI PARLIAMO

(Irina Tuzzolino)

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Oggi parliamo un italiano standard che erode con costanza l’area occupata dai dialetti. La lingua è come un fiume che scorre perenne e raccoglie l’apporto di tanti altri corsi d’acqua cioè di parlate popolari e colte, di prestiti e calchi da altre lingue, insomma è legata alla storia di un popolo, che vive a contatto con altri popoli. Dopo avere celebrato l’anniversario dell’Unità d’Italia, di tanto in tanto si cerca di tracciare una storia dell’italiano in testi divulgativi che raggiungano un pubblico più ampio, pur non tradendo il rigore scientifico. Non soltanto per un rinnovato attaccamento alla nostra cultura e tradizione , ma anche per una difesa della lingua che subisce l’assedio della globalizzazione e della tecnologia capillarmente diffusa. Nell’immagine un frontespizio dello storico vocabolario edito dall’ Accademia della Crusca, che ha guidato l’uso della lingua italiana fino all’Ottocento. Il vocabolario teneva conto dell’uso dei buoni scrittori toscani e per lo più si rivolgeva a scrittori. Dico per lo più perché tra i dialettofoni e i cruscanti esisteva un ceto intermedio che usava l’italiano anche nella scrittura, ma non l’aveva imparato nei luoghi deputati, ma da autodidatta usando testi religiosi o d’avventura o per esigenze di commercio.

Come l’ha definito Tommaso Landolfi, oggi ripreso da E.Testa in L’italiano nascosto, Einaudi, pidocchiale cioè sgrammaticato. Questa tesi, sebbene sostenuta da documenti, non sembra condivisa da tutti, perché a lungo è prevalsa la tesi secondo cui l’italiano è stato una lingua scritta, conosciuta e posseduta da pochi. Oggi condividere l’una o l’altra tesi assume un particolare rilievo, perché genera una visione politica diversa. Nell’uso della stessa lingua, sia pure a vari livelli a partire dal ‘300, si vede un processo di condivisione culturale ed una consapevolezza popolare della propria identità per cui l’unità è uno sbocco naturale. Al contrario la separazione culturale tra dialettofoni e dotti genera l’idea di un’unità imposta da un élite colta per cui la lingua della giovane nazione doveva liberarsi dall’uso prettamente letterario prescritto dall’Accademia della Crusca ed avvicinarsi ai parlanti contemporanei “colti”, come ha fatto A. Manzoni nel romanzo. La questione è lontana da una soluzione. Ma l’importante è il fatto che oggi tutti parliamo e scriviamo in italiano, anche se in alcuni casi pidocchiale.

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