FAUST A TORINO

( Salvatore Aiello)

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Un Faust? Ma ce l’ho nel ventre da anni. Così Gounod accoglieva la proposta del Théâtre Lyrique di mettere in musica il capolavoro di Goethe. Molti i compositori tedeschi che ne avevano accarezzato il progetto da Beethoven, Schubert, Mendelsshon, Wagner, Liszt per giungere a Schumann, Mahler e Busoni di formazione culturale tedesca. Il personaggio che si può definire un wahrheitssucher è un archetipo dell’umanità dimidiata tra perentori bisogni mistici e attrattive per la vita terrena e le sue istintive piacevolezze. Faust è l’uomo problematico che ha il tempo dell’eternità in quanto non rinuncia, facendo ricorso a tutte le categorie mentali, a cercare la verità, espressione questa dell’uomo che con spirito ulisseo, pur conscio dei suoi limiti, cerca disperatamente e spesso con arroganza di oltrepassare e abbattere i limiti dei muri che l’esistenza pone.  Questo il precipuo aspetto animante l’approccio di Stefano Poda che al Regio di Torino ne proponeva giovandosi del nuovo allestimento in coproduzione con Israeli Opera e Opèra de Lausanne, una visione accattivante, interlocutoria, intrigante per certi aspetti, ricca di simbologia e di rimandi che trasversalmente lasciavano spazio allo spettatore di cogliere allusioni, confrontarsi ed interrogarsi ancora una volta sul destino dell’uomo.

 

L’anello freddo, luminoso che incombeva sin dall’inizio inesorabilmente sulla scena ci immetteva nell’idea kafkiana che la vita è una prigione e dove nonostante un certo enciclopedismo, anche di maniera, non riesce a riscattare l’uomo dal dolore del vivere e dal mistero della morte. Il testo per Gounod si allontana dal filosofeggiare di Goethe tout court in quanto accentra tutto sull’amore romantico di un Faust ringiovanito per Marguerite. Nei panni della seconda vita il protagonista rimarrà un wanderer incline a grossolani errori, ad alacre fantasie, al delirio di conquistare la vita e i suoi piaceri. Chi conosce la biografia di Gounod riconosce nella sua più grande creazione, un transfert, una proiezione della sua vita borderline tra momenti profondi di spiritualità catartica e abbandoni alle passioni sensuali totalizzanti, una per tutte la sua storia sentimentale con Giorgina Weldon, ma il coinvolgimento generale che domina tutta l’opera è la forza della fede, l’abbandono in Dio e la misericordia dei cieli che ricompongono ed inverano l’esistenza. Il compositore mette a disposizione tutta la sua ispirazione facendosi lavorare dall’arte per offrire alla Francia una sintesi nuova che sposa le ragioni dell’Opera Comique e del Grande Opera il tutto risolto con magistrale piglio di musicista avvertito, regalandoci pagine memorabili dense e ben articolate di momenti leggeri, teneri ed altri di densa drammaticità. Questo ed altro è stata la visione felice che ha guidato la direzione comunicativa di Gianandrea Noseda in sintonia col palcoscenico e con un’orchestra vigile ad assecondare l’idea del direttore che ci ha trascinati e convinti per l’uso altamente espressivo delle dinamiche e con delle sonorità sempre sorvegliate e vigili senza mai scadere in debordanti e plateali suoni ricordandoci che la musica francese si distingue e si impone proprio con linguaggio da sala da concerto ma soprattutto per la bellezza melodica delle sue arie, sia drammatiche che poetiche. In consonanza il personale apporto della regia di alto livello di Stefano Poda che curava brillantemente anche le scene, i costumi, la coreografia e le luci; a lui il merito per non avere stravolto, in nome di una volgare voglia di modernizzazione, la realizzazione di uno spettacolo che invece è risultato ricco di suggestioni, di idee nuove, in qualche momento discutibili per poca chiarezza degli intendimenti (vedi l’esplosione delle pance o il ricorrere all’uso delle rivoltelle nel duello tra Valentin e Faust solo per fermarci ad alcune citazioni) ma geniale e del tutto commovente vedere inchiodata alla sua croce di carne, novello Cristo, l’innocente e sognatrice Marguerite, incapace di riconoscere il male, di farlo ma destinata solo a subirlo. All’altezza del compito la compagnia di canto per impegno, vocalità, stile e per viva partecipazione. Charles Castronovo nei panni di Faust ci ha consegnato il ritratto di un uomo solo, di una solitudine tinteggiata di vanitas vanitatum, ci ha fatto sentire un canto impegnato nel proporre belle sfumature, preziose mezze voci, piani e filati morbidi, malgrado qualche incertezza in zona acuta. Con lui la Marguerite di Irina Lungu che ha disegnato pienamente il personaggio sofferto e smarrito di fronte ad avvenimenti estranei alla sua umanità e alla sua quotidiana dimensione con una voce di autentico soprano lirico, smaltata in tutti i registri evidenziando appropriata perizia tecnica sia nei momenti di dolci abbandoni che in quelli di tensione drammatica. Prezioso il Valentin di Vasilij Ladjuk dal timbro caldo ed elegante, da una vocalità estesa e salda nel centro; Ildar Abdrazakov era Mephistopheles dalla linea corretta e dalla vis interpretativa convincente, punto debole la sua vocalità non ferrigna né adeguatamente luciferina. Efficace il Siebel di Ketevan Kemoklidze anche se talvolta ai limiti per poca rotondità; corretti Samantha Korbey (Marthe) e Paolo Maria Orecchia (Wagner). In aggetto il coro ben istruito da Claudio Fenoglio. Calarosissima ed esultante l’accoglienza del pubblico per uno spettacolo certamente da ricordare.

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