SICILIA, L’ISOLA TRA MITO E REALTÀ

Le risorse culturali: I mestieri artigianali del 900

(Tommaso Aiello*)

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Nell’ambito del più vasto e complesso Tema di Studio Distrettuale, si inserisce perfettamente uno dei temi dei comitati di lavoro: Antiche arti e mestieri della tradizione siciliana, ed è per questo che ho voluto dare un contributo, data la lunga esperienza nello studio del settore culturale, a questo tema che sicuramente coinvolgerà , speriamo, tantissimi club del nostro Distretto. Lo scopo è, osserva il nostro Governatore, quello di dare un aggiornamento e una formazione per l’avvicinamento dei giovani ad arti e mestieri della tradizione culturale locale. Si vuole puntare, insomma, a fornire strumenti e basi per la creazione di imprese artigianali, valorizzando nel contempo la produzione locale, la storia e la tradizione artigiana della Sicilia.

Dicevamo nel nostro titolo, Risorse Culturali, e con il termine Cultura di solito ci riferiamo al complesso delle conoscenze intellettuali mediante le quali una persona con autonoma rielaborazione riesce ad affinarsi intellettualmente e spiritualmente. Questo metodo di intendere la cultura informa di sé la civiltà occidentale per gran parte della sua storia. Da tempo ormai, nell’ambito delle scienze sociali, si è diffuso però un nuovo concetto di cultura, detto antropologico perché in quella disciplina è stato prima e meglio formulato. In buona sostanza per cultura non dobbiamo solo intendere i prodotti artistici e monumentali dello spirito umano, ma anche le tecniche messe in opera per realizzarli: le tecniche e i saperi ad esse connessi, gli attrezzi e tutto quanto è in qualche modo legato alla manifattura dei prodotti. Accanto ad artisti, architetti, e pittori devono essere riconosciuti degni di attenzione anche gli artigiani del legno e del ferro, gli scalpellini, i contadini e i pescatori. La cultura o civiltà intesa nel suo più ampio senso etnografico è quell’insieme complesso che include la conoscenza, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall’uomo come membro di una società. Se facciamo nostra questa ottica appare certamente riduttivo limitare la definizione di bene culturale alle produzioni artistiche e monumentali diffuse in un determinato territorio. Noi citiamo di solito i progettisti e gli esecutori eccellenti, ma ciò non può esimerci dal porgere un ricordo agli anonimi operai, scalpellini, falegnami, fabbri ferrai, di cui non è possibile trovare nota nei libri. Il fatto è che tutte le realtà con le quali oggi abbiamo a che fare sono realmente antropizzate e dietro ogni processo di una umanizzazione ci sono genti che hanno osservato, progettato, eseguito materialmente e portato a termine. C’è insomma l’uomo e il suo lavoro.

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Questi valori della memoria storica, questi segni forti della nostra cultura ci danno uno scopo ad agire, ad operare in un certo modo. E’ fondamentale quello che si può fare dimostrando agli altri che le testimonianze monumentali sono l’uomo e che se l’uomo ha uno scopo opererà in un certo modo e non in un altro.. Solo con queste premesse ci rendiamo conto che tutelare o restaurare o rivalutare una struttura, un monumento, ha una valenza che travalica le apparenze superficiali per andare ben oltre. Si tratta di interventi che risanano la società e quindi l’uomo. Allora, in questa dimensione, i Beni Culturali sono un enorme serbatoio di valenze che possono dare a tutti scopi per operare. Abbiamo certamente fatto uno sforzo notevole in questi ultimi decenni per avere una visione corretta di quelli di quelli che sono i Beni culturali artistici e monumentali e i Beni culturali materiali o etnoantropologici. Ma a che cosa è servito questo sforzo e soprattutto a che cosa servirà? Se non riusciamo a dare uno sbocco positivo, questo nostro sforzo è stato del tutto sterile. Bisogna allora pensare come utilizzare queste conquiste del pensiero.

 

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Una risposta adeguata, che è poi quella che tutti, a qualsiasi livello danno da diversi anni, è quello di utilizzare questi Beni nel contesto di uno sviluppo armonico finalizzato al potenziamento dell’industria del turismo in Sicilia, che a dire il vero quest’anno, vuoi per l’andamento climatico positivo, vuoi per i diversi incentivi, ha subito un positivo ed inaspettato 8% di incremento. Il momento che il Mezzogiorno d’Italia sta attraversando è estremamente difficile. L’attività produttiva non presenta segni di ripresa e di crescita. I problemi sono tali e tanti che difficilmente potranno essere affrontati e risolti. Tutti i settori economici sono in gravissima crisi , gli interventi, le soluzioni immaginate difficilmente apporteranno benefici, e la paura è che aggraveranno la situazione. Il divario tra Nord e Sud continua ad accentuarsi. Il Mezzogiorno d’Italia rischia di distaccarsi sempre di più non solo dal resto del paese ma anche dall’Europa tutta. Rischia di rimanere il vagone di coda del treno dello sviluppo. Da noi la disoccupazione arrivata al 44% non è un problema , è un dramma. E allora se questa è la situazione, quali sono i rimedi da prendere, le cose da fare affinchè si superi questo grave momento e si crei un vero e proprio avvenire alle nostre popolazioni? Il Mezzogiorno e la Sicilia in particolare, a mio avviso, rappresentano una grande opportunità per l’intero paese, in quanto l’utilizzo delle risorse umane e materiali costituiscono un fattore di accelerazione della crescita complessiva del Paese. Non è compito mio quello di fare un’analisi dei vari rimedi da adottare, ma guarda caso, uno dei principali rimedi, forse il principale, è quello rappresentato, come dicevamo prima, dallo sviluppo del turismo che può incidere sensibilmente sul problema occupazionale. Certamente all’interno di questa problematica generale, possiamo considerare di grande importanza il tentativo di rivitalizzare alcuni aspetti dei mestieri artigianali dei primi del ‘900, senza però

 

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illuderci che tutto possa ritornare come prima, perché ci sono mestieri che non potranno rivivere più in un’epoca altamente tecnologica. Cercheremo intanto di far conoscere come viveva la nostra gente, insomma “come si guadagnava il pane” agli inizi del secolo scorso. La vita dell’uomo è stata sempre caratterizzata dal lavoro che, a seconda della civiltà e del momento storico nonché soprattutto del territorio di appartenenza e delle risorse naturali, si connota di peculiarità singolari su cui si fondano l’economia e il commercio locali. Specie nel passato il lavoro si esprimeva in mestieri legati all’artigianato e all’agricoltura, con segreti tramandati da padre in figlio o in piccole aziende a conduzione familiare, ai prodotti dell’agricoltura e della pesca, ai trasporti coi carretti o coi cavalli, oppure con minuto commercio stradaiolo, con posto fisso o ambulante per i paesi della regione. Alcuni mestieri anzi accompagnavano il folklore delle sagre paesane in occasione delle più importanti feste, altri invece soccorrevano alle necessità quotidiane dei passanti, come l’acquaiolo o i venditori di carbone porta a porta, o dei prodotti della campagna offerti dal produttore al consumatore con i festosi carretti. Un posto a parte merita un mestiere particolare o forse meglio un’arte, legata al teatro di antica origine in cui l’artista è non solo creatore di personaggi, ma interprete delle storie tratte dalle Chanson de geste o dai poemi cavallereschi. Purtroppo l’opera dei pupi continua a sopravvivere stentatamente in alcune centri, dove esiste la presenza di qualche discendente dei pupari, e questo perché quella sonorità malinconica, eloquente e melodrammatica non trova più il suo pubblico ingenuo di un tempo, non fa più presa su di esso. Non può certo tornare il tempo dei fedelissimi che tiravano una scarpa in testa al traditore Gano di Maganza, o andavano alla casa del puparo per portare da mangiare a Rinaldo che era rinchiuso in prigione. Esagerazione, leggenda? No, era il sintomo tangibile di una partecipazione attiva, di una rispondenza perfetta tra ciò che offriva il puparo e ciò che voleva la nostra gente.

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Accanto a questi tutta un’altra serie di mestieri che hanno caratterizzato la nostra gente agli inizi del ‘900 e che sono continuati ad esistere fino a poco dopo la fine della seconda guerra mondiale. Ricordiamone alcuni che molti di voi hanno forse conosciuto, ma i più giovani sicuramente non conoscono neanche il significato del termine. In questa elencazione ci è di prezioso aiuto Giuseppe Pitrè col suo primo volume ”Usi e costumi-Credenze e pregiudizi del popolo siciliano” a cura di Aurelio Rigoli e un interessante volumetto di Gaetano Blandi, “Le voci della strada”.

Ammolacuteddi (Arrotino), colui che affilava coltelli e forbici. Aveva in dotazione un carrettino su cui era collocata una grande ruota di pietra arenaria, girevole attorno ad un asse orizzontale che era collegato con una cinghia di cui ad un pedale di legno.

Conzalemmi(concia piatti, boccali in terracotta, ecc),forse il più povero dei mestieranti del passato. Passando per le strade veniva chiamato dalle donne di più basso ceto sociale. Queste portavano fuori boccali, piatti, pentole e vasellame vario in terracotta. “ ‘U conzalemmi’ sedeva per terra e appoggiava sulle gambe i pezzi da unire e con un trapano a mano praticava i fori necessari in cui conficcava i fil di ferro, i cui capi venivano attorcigliati con una tenaglia e se era il caso, riempiendo i vuoti rimasti col mastice.

Scarparu(Calzolaio o cibattino), mestiere altrettanto povero come quello del conzalemmi. Girando per i quartieri più miseri, quando lo chiamavano si fermava e sedutosi in uno sgabellino, tirava fuori da una “sporta”(borsa) il trincetto, le forme di legno, il martello, i chiodi, la lesina, lo spago e frammenti di suola e di cuoio, per

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risuolare, rattoppare e ricucire le vecchissime scarpe che così duravano anni e anni.

Paracquaru(ombrellaio), si vedeva soprattutto all’approssimarsi della brutta stagione. Il suo richiamo di solito era questo: “C’è ‘u paracquaru, aggiustativi i paracqua!” Erano artigiani abbastanza abili el loro lavoro e con i pezzi di ricambio rendevano quasi nuovo l’ombrello.

Rinaru(venditore di sabbia bianca o”rina d’argentu”)per pulire le suppellettili in metallo e più in particolare in rame.

Acqualoru(acquaiolo), il quale portava con sé una grande “quartara!(brocca di terracotta), diversi bicchieri e alcune bottigliette di “zammù”(anice) e preparava una

imagebevanda: acqua e zammù, per far rinfrescare la gente nelle assolate giornate estive.

Arriffaturi( il sorteggiatore). Era di solito un uomo vivace ed energico, dalla parola facile. Girava per le strade invitando la gente ad acquistare i biglietti numerati per partecipare al sorteggio che assegnava al più fortunato la somma di denaro che egli mostrava prima, oppure dieci chili di pasta o anche delle bellissime bambole.

Gelataru(il gelataio).Non è difficile incontrare ancora oggi nei piccoli paesini un triciclo o una “motoape” adattati a bancone di gelato e il gelataio vendere ai bambini e agli adulti la “granita”(succo di limone diluito in acqua e zucchero). Nei tempi passati nel triciclo portava un luccicante coperchio conico con il sottostante “pozzetto”, che conteneva diverse specialità di gelato.

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Stagnataru(stagnaio-stagnino) che col suo carrettino siciliano girava per le strade dei paesi chiamato dalle donne per riparare padelle, tegami, pentole e stoviglie di metallo. Oltre al ferro da saldare, portava anche alcune lastre di zinco, verghe di stagno, acido muriatico e vecchi manici da reimpiegare. Oggi esiste ancora questo mestiere, l’artigiano non gira più però per le strade , ma ha aperto bottega e il suo lavoro si è quasi completamente trasformato, legandosi alle esigenze della civiltà contemporanea(recipienti per l’olio in acciaio inox, grondaie in rame ecc.)

Carbunaru(venditore di carbone). Di solito aveva un piccolo carretto pieno di carbone che vendeva a chilo alle famiglie che non avevano ancora la cucina a gas.

Cocchiere che trasportava le persone da un punto all’altro del paese o li portava addirittura nei paesi vicini o nel capoluogo di provincia.

Mastru d’ascia, falegname che girava per i vari paesi con tutti i suoi ferri e la sega sulle spalle. Di solito aggiustava sedie rotte, tavoli e suppellettili in legno.

Gabbiaru, che costruiva le gabbie per le galline, che quasi tutte le famiglie allevavano.

Rimpagliatore, che riempiva il ripiano delle sedie in paglia intrecciata.

Siggiaru, che aggiustava le sedie rotte o sgangherate.

Sartu, che cuciva vestiti nuovi o più spesso rivoltava o rattoppava quelli vecchi.

Chiavitteri, che faceva le chiavi e le toppe per le porte di casa.

Lustrascarpe, che lucidava le scarpe dei signorotti o dei “burgisi”.

Firraru, maniscalco, che metteva i ferri negli zoccoli dei cavalli.

Viminaru(cestaio), che con cannucce di vimini preparava ceste, cestini e panieri.

Siddunaru(sellaio), che costruiva le selle per i cavalli o animali da soma o da traino.Era anche un abile artigiano nel preparare i “finimenti o armigi” per cavalli.

Tammurinaru(banditore), che col suo tamburo annunciava per le strade notizie o disposizioni di legge o avvenimenti importanti e rappresentava pure la pubblicità ambulante.

A nostro avviso questi antichi mestieri fanno parte della storia delle tradizioni siciliane. Molti di essi sono del tutto scomparso o diventati rarissimi,soppiantati dal progresso e dall’industrializzazione, dalla tecnologia più sofisticata, ma anche da altre abitudini di vita, da consumi diversi, dove all’acqua e “zammù” per dissetarsi si è sostituita la Coca-Cola. I giovani di oggi non hanno mai conosciuto l’acquaiolo, il conciabrocche, gli arrotini e tutti quegli altri mestieri che abbiamo ricordato. Questo passato è comunque patrimonio di memorie da ricordare, un “come eravamo” pacatamente tinto di nostalgia e sorridente sorpresa nel notare le mutazioni che il tempo incide nel costume e nelle abitudini dei popoli. Il nostro compito è stato quello di ricostruire in parte un quadro dalle tinte schiette della vita di ieri, specie delle classi più umili e subalterne, che non vuole suggerire rimpianti ma solo testimonianze in cui è riflessa la storia dell’evoluzione della nostra terra e della nostra gente.Il tentativo di voler far rivivere alcuni di questi mestieri che potrebbero essere ancora produttivi e dare la possibilità ai giovani di trovarsi un lavoro autonomamente, è estremamente difficile ma non impossibile. Ed è quello che stanno suggerendo i Lions.

 

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* Addetto stampa Distrettuale LIONS

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