DIE ZAUBERFLÖTE

(Salvatore Aiello)

(Foto Fr. Lannino)

Albert Einstein sosteneva che il Flauto Magico rimane ”Un lavoro che incanta un fanciullo, commuove l’uomo più indurito ed entusiasma il saggio. Ogni individuo e ogni generazione vi trova qualcosa di diverso; solo a colui che é semplicemente colto e al puro barbaro non dice nulla”. Dopo quattordici anni ritorna sulle scene del Massimo Der Zauberflöte, fiaba di insinuanti simboli ed allegorie, testamento supremo dell’operismo mozartiano, prototipo dell’opera tedesca con l’allestimento nato a Palermo nel 2001 e felicemente ripreso in tante produzioni teatrali; un allestimento che ancora oggi ci colpisce per la freschezza  e l’incanto dovuti alla scelta intelligente di Roberto Andò la cui regia  punta  il suo campo d’azione su quello che poi é l’elemento naturale di Mozart e del suo librettista Emanuel Schikaneder che vollero la creazione per un teatro marcatamente popolare. Avendo spazzato quelle spesso difficili e non sempre probabili soluzioni filosofiche che per due secoli i critici hanno voluto, con letture trasversali, dagli elementi massonici  a quelli illuministi, ricercare nell’opera, Andò preferisce l’abbandono a quel gusto che è proprio dello zauberoper. Abbiamo tante volte lamentato allestimenti e regie moderne che ci hanno lasciato amaramente disorientati per il tradimento tout court  della musica e degli autori ma questa volta tutto sembra un getto di moderna rivisitazione tenendo conto  sempre che é un’Opera bifronte perchè l’elemento fiabesco si sostanzia dei tanti reconditi significati che permeano il libretto e che soltanto alla fine il lieto fine riconduce alle premesse. Sul palcoscenico relativamente nudo si accampano pochi ma decisi movimenti scenici animati da una recitazione dei cantanti-attori coinvolgenti anche il pubblico in platea. Anche se manca lo scavo interiore dei personaggi da parte del compositore e lo studio profondo delle psicologie emotive, ciò che rimane vincente é la Musica che consente di trasformare i personaggi in tipi teatrali lasciando che essi possano deliberatamente esprimere sia i dolorosi moti del cuore sia le note più gaie della gioia  e della comicità e quando gli elementi fiabeschi danno l’avvio alle scene iniziatiche sono le tre porte dei templi di natura, sapienza e ragione ad accogliere Tamino e Papageno verso la conquista della luce. Belle le scene  e funzionali le luci di Giovanni Carluccio che ,con un tocco delicato e didascalico, via via fedelmente conducono alla narrazione in duttile respiro con la regia; adeguati i costumi di Nanà Cecchi.

Tutto funziona perfettamente e dello singspiel grazie alla direzione attenta di Gabriele Ferro cogliamo la fusione senza fratture tra l’opera seria e l’opera buffa e l’impiego di tutti i generi dal lied alle melodie popolari, alla musica mistica e ritualistica per giungere alle estreme vette della coloratura vertiginosa.L’orchestra di Mozart alla prima viennese contava trentacinque strumentisti e a questa ispirazione Ferro riduce la sua attenta direzione impegnata a ricreare atmosfere, colori e suggestioni coniugati con arguzie, fantasia ed umorismo che i tedeschi definiscono witz, avvalendosi di pochi archi, un quartetto allargato, con la buca dell’orchestra rialzata che crea coinvolgimento pieno. Leggero il tocco orchestrale sin dall’ouverture tendendo a conquistare sempre più percorsi espressivi in perfetta aderenza alle richieste del canto.In questo clima di piacevolezza trova spazio la ben amalgamata compagnia di canto: Paolo Fanale nel ruolo del principe Tamino, con generosità e slancio vocale, si destina ad una palingenesi interiore  e a conquistare con febbrile desiderio e passione non solo l’amore per Pamina ma soprattutto per percorrere quell’itinerarium che gli consente di elevarsi dal mondo della terra degli uomini comuni per carpire la dimensione quasi degli dei quando gli uomini sanno cibarsi di saggezza e razionalità.Laura Giordano con vocalità docile e garbata espressività veste i panni di Pamina, la sprovveduta figlia della regina Astrifiammante, coinvolta a percorrere anche lei il faticoso cammino che solo dopo avere superato la prova del fuoco e dell’acqua risulterà degna e fedele compagna dell’uomo vagheggiato.Del tutto in risalto il collaudato e geniale Papageno di Markus Werba di accattivante simpatia, di attoriale espressività ma soprattutto dotato di una vocalità densa, ricca di colori, scenicamente pienamente credibile disegna a tutto tondo il personaggio cogliendo le note bizzose, esilaranti ma capace anche di risvolti melanconici. Convincente in genere lo ieratico Sarastro di  Andrea Mastroni. Un po’ in ombra il canto di Cornelia Goetz   (Königin der nacht) per timbro, poca duttilità di fraseggio e qualche fissità del suono. Laura Catrani mette a disposizione di Papagena una vocalità brillante con accenti teneri e buona tenuta scenica. Sulle righe il Monastato di Alexander Krawetz.Efficace l’apporto di Anna Schoeck, Christine Knorren, Annette Jahns (Drei damen) e di Emanuela Ciminna, Federica Quattrocchi, Riccardo Romeo (Drei knaben). Completavano il cast in maniera del tutto dignitosa  Roberto Abbondanza, Cristiano Olivieri, Victor Garcia Sierra. Bene il Coro di voci bianche e il Coro del teatro istruiti rispettivamente da Salvatore Punturo e Piero Monti. Calorosa l’accoglienza del pubblico che omaggiava il quartetto palermitano: Andò, Ferro, Giordano e Fanale.

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