ORLANDO FURIOSO E SON CINQUECENTO

(Carmelo Fucarino)

Cinquecento anni e non li dimostra da quel 22 aprile 1516, quando Giovanni Mazocco pubblicò la prima edizione con dedica al cardinale Ippolito che poco l’apprezzò, come avviene spesso con i potenti,  pro bono malum. La sua freschezza, la sua gioventù rifulgono da ogni immagine, da ogni verso, da ogni parola. Devo ammettere che fu ed è rimasto il mio primo amore degli anni dell’iniziazione letteraria, accesa dal fascino di Gaetano Trombatore, che mi scopriva l’orrifico ingresso di Alessandro Manzoni nel collegio dei Somaschi, davanti a quel Cristo angosciante (come lo descrisse Antonio Stoppani (I primi anni di Alessandro Manzoni / spigolature, Milano, L. F. Cogliati, 1894). Ma fu il verghiano Giorgio Santangelo che mi assegnò una tesina (immaginate la vera novità nel 1957!) di pieno spunto ariostesco con la guida di due testi sacri, scritti da due cultori che mi aprirono scenari di praterie sconfinate: uno era L’”Orlando furioso” e la Rinascenza a Ferrara di Giulio Bertoni (Modena, Orlandini, 1919) che si apriva con il classicismo di Ariosto e seguitava con il volgare a Ferrara; il secondo più strabiliante, scritto da Pio Rajna indagava minuziosamente su Le fonti dell’Orlando Furioso (Firenze, Sansoni, 1900). L’uno ricreava l’atmosfera della Ferrara degli Estensi, l’altro notomizzava la minuta e faticosa elaborazione del poema, ogni verso una fonte classica antica, che rinverdiva ed eternava il Rinascimento italiano. Per me furono gli anni della scoperta della fantasia senza briglie, esaltata dalla perfezione della lingua e del verso. In genere la scuola ci torturava con Dante, coronato di alloro di savoiarda normativa scolastica, passata indenne tra fasci fascisti e purgatori democristiani. Imperava esclusivo per i tre anni e se ne studiavano le tre cantiche intere, senza il minimo sconto. Ricordo il feroce leone incazzato Vincenzo Mancuso che si divertiva, oltre che con le sue divagazioni americane su Imagination, a tenerci sulla corda con la lotteria di cerchi e dannati e cieli paradisiaci. Guai a sbagliare o addirittura a non sapere: “seduto, due”. Al ginnasio era stato padre Manzoni e la sua baciapile, resa più edulcorata dalla dettatura delle paginette di Momigliano. Nel terzo anno del classico la svirgolatura di Verga e di I Malavoglia, che tutto erano tranne che italiano. E neppure siciliano nel modo più assoluto. Come pure si spaccia l’invenzione artistica personale di Camilleri. Oggi un Comitato Nazionale ha fatto le cose in grande, una serie di appuntamenti organizzati e programmati in diversi mesi e in tante città e sedi della Padania veneta. A suo nome Lina Bolzoni ne spiega le nobili motivazioni: «Le ricorrenze, i centenari, possono passare nel silenzio e nell’oblio, oppure possono essere dei segnali che risvegliano l’interesse, stimoli che agiscono come imagines agentes, per riprendere l’antica terminologia dell’arte della memoria, qualcosa cioè che è capace di mobilitare insieme ricordo e invenzione, conservazione del passato e creazione del nuovo». Ma torniamo al protagonista: il libro. Basti il fulminante incipit per certificare e chiarire le radici dell’invenzione ariostesca. L’intera protasi del racconto epico che riassume l’argomento è espresso in un chiasmo perfetto, quel marchingegno letterario che aveva avuto uso e glorie in tutta la poesia greca ed era stato regolato dalla retorica, quella disposizione a X che incatenava fatti e immagini antitetici: «Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori, / le cortesie, l’audaci imprese io canto». Chi osa dire di non conoscere questo verso? Forse lo sa pure la Natalia Aspesi, che si vanta con una ostentata spavalderia di non conoscere A Zacinto sorretta da arzigogolate giustificazioni di un cattedratico italianista di ruolo statale. Con questo intreccio vorticoso rappresenta in un rilucente caleidoscopio l’universo della cavalleria, allora già morta e sepolta da anni, già allora da quando Boiardo aveva creato quel suo Orlando alla dolce stil novo, guerriero in difesa della religione, ma anche «da Amor vinto, al tutto subiugato». Eppure avviato il canto con l’avvalersi di uno strumento tecnico antichissimo, proprio a chiusura di verso dà un calcio alle leggi dell’epos, un imperioso ribaltamento della poetica del genere. Dalla nascita della poesia e della cultura occidentale, con quei versi scultorei e immensi: «Cantami, o Diva, del Pelíde Achille / L’ira funesta» oppure «Musa, quell’uom di moltiforme ingegno» (così purtroppo, per chi non conosce la parola scultorea e sublime del verso greco), si era invocata la Musa. Vergilio aveva iniziato in modo diverso con quella prima persona e l’autorevolezza del suo canto (Arma virumque cano, Troiae qui primus ab oris), ma poi non aveva potuto fare a meno di chiedere soccorso alla Musa (Musa, mihi causas memora), troppo ligio ad Omero e ad Ennio, l’alter Homerus di Roma. Certo Boiardo aveva seguito le norme delle corti ove venivano recitati gli eroismi cavallereschi e si era rivolto ai cavalieri con l’espediente della traduzione della «verace cronica de Turpino», cantando: «Signori e cavallier che ve adunati / Per odir cose dilettose e nove, / Stati attenti e quïeti, ed ascoltati / La bella istoria che ’l mio canto muove». Ora l’uomo che aveva avuto alti incarichi diplomatici alla corte papale e poi era stato commissario per tre anni (1522-1525) nella torre di Castelnuovo fra i boschi di Garfagnana, relegatovi da Alfonso d’Este («Questa è una fossa, ove abito, profonda, / donde non muovo piè senza salire / del silvoso Apennin la fiera sponda», ove «accuse e liti sempre e gridi ascolto, / furti, omicidii, odi, vendette et ire; /sì che or con chiaro or con turbato volto / convien che alcuno prieghi, alcun minacci, / altri condanni, altri ne mandi assolto», Satira IV e cf. pure la VII), lui che sapeva di armi e di difese, si assumeva in prima persona la responsabilità del canto, anzi lo sosteneva a pieno titolo con quell’enfatico “io”. Non più dei o muse, ma l’uomo con la forza del suo ingegno e con l’imperio della sua parola. E con il suo canto spiegato, a piena gola. L’Uomo del Rinascimento e della rivoluzione copernicana (povero Galilei che non meritò neppure l’intestazione della rivoluzione). E tutto sembrava nuovo, anche quel linguaggio e quella struttura. L’epos cavalleresco aveva inventato altre complesse strutture strofiche. Alla semplicità della terzina che sviluppava il pensiero in appena soli tre versi si dispiegava il fluire ampio e fluviale dell’ottava, che talvolta non era sufficiente ad esporre la piena travolgente e torrentizia del narrare e del sentire e proseguiva in enjambement (parola moderna, ma tecnica antichissima) nella successiva. E in questo profluvio di parole che straripavano l’armonia del verso e la musicalità delle parole che travolgono e sconvolgono per ritmo e bellezza in un continuum senza fine aperto all’infinito. Perché questo canto potrebbe continuare in eterno, se la vita ci fosse benigna. Perciò all’”oscuro e barbaro” Dante, così in qualche epoca dipinto, ho da sempre preferito il luminoso splendente gaudioso Ariosto. Anche con le sue profonde continue reminiscenze ed echi classici Mi fa ridere qualche buontempone che per elogiare Ariosto salta a piè pari a Tolkien e, perché no, allo stupore odierno dell’invenzione, che in questi giorni si esalta nella sbracata propaganda, con “librerie in fermento” e notti magiche, per quel maghetto di Hogward, il miliardario Harry Potter. Si può vincere la noia di migliaia di pagine di giochi di artificio con un poema in ottave di 46 canti e 38.736 versi in totale. Sì, perché le ansiose sospensioni e le insospettabili riprese ci avvincono più del maghetto ovvio e banale con i suoi irreali giochi di prestigio per bambini. Si chiamano “effetti speciali”. Irreali artifici tecnici in confronto ai castelli incantati, allo scudo abbacinante e allo strabiliante Ippogrifo. Per chi non si stupiva degli asini che volavano, volete mettere la bellezza di un cavallo. E quel viaggio sulla luna alla ricerca del senno perduto! Solo Luciano e la sua Storia vera possono superarlo. Per dirla con uno che se ne intendeva di magie della parola: «Il Furioso è un libro unico nel suo genere e può essere letto senza far riferimento a nessun altro libro precedente o seguente; è un universo a sé in cui si può viaggiare in lungo e in largo, entrare, uscire, perdercisi» (Orlando furioso di Ludovico Ariosto raccontato da Italo Calvino, Einaudi, Torino 1970).

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