NOI E L’IMMIGRAZIONE NEL 1990

Intervento alla Pergola dell’Hotel Hilton la sera del 1° Giugno 1990  di Enzo Maggi- L.C. Roma Aurelium

Credo che prima di tutto occorra dare un rapidissimo sguardo a quella che possiamo definire la genesi storico-politica del fenomeno “immigrazione”. Ovviamente qui si parla di immigrazione extracomunitaria. Perché popolazioni del cosiddetto Terzo o Quarto mondo sentono oggi irrefrenabile il desiderio di lasciare le loro terre e di approdare nel mondo industrializzato e, da noi definito, civilizzato? Quali sono queste popolazioni? Sarà un caso – ma forse non lo è! – ma si tratta, per lo più, di popolazioni che per decenni – in qualche caso per secoli – hanno subìto dominazioni coloniali da parte proprio del mondo occidentale in senso lato, europeo in particolare.

Dobbiamo, nostro malgrado, riconoscere che quasi tutti i Paesi che hanno avuto un passato di colonialismo attivo hanno interpretato e praticato nella maniera più conveniente alle proprie finalità politiche ed economiche il loro ruolo di colonizzatori, esorcizzando e rifiutando, almeno fino alla conclusione del secondo conflitto mondiale, la eventualità che la loro permanenza in altri Paesi potesse avere caratteristiche di ciclo storico e quindi terminare.Quelle finalità e questo convincimento, uniti spesso all’altro, più deleterio, di considerare le popolazioni dominate razze inferiori, hanno fatto sì che mentre da un lato il Paese dominato rappresentava un serbatoio per soddisfare esigenze economiche (materie prime, braccia a basso costo, etc.)  e politiche (reclutamento militare), dall’altro lato tenue o addirittura inconsistente si mostrasse la volontà di contribuire alla sua elevazione sociale. Già sento serpeggiare tra i presenti reazioni di dissenso, specialmente in chi ha avuto esperienze di vita in Paesi del Continente africano.  Tengo però a sottolineare che non intendo assolutamente sollevare indici accusatori verso chicchessia: anzi, sicuramente il nostro Paese nella classifica delle nazioni miopi non occupa il primo posto e neppure è tra i primi. Ma ciò non vuol dire che, nella sua complessità, il fenomeno non abbia riscontri storici obiettivi. E quando parlo di elevazione sociale intendo riferirmi non soltanto a opere che tale natura rivestono (case, ospedali, scuole, fabbriche, strade e così via), ma anche – e, oserei dire, soprattutto – alla formazione di una classe dirigente autoctona alla quale affidare, durante e dopo la dominazione, il governo amministrativo del Paese.  Sicuramente ciò ha rappresentato il lato più negativo al quale si possono far risalire, in massima parte, le difficoltà che oggi angustiano i paesi sottosviluppati: una fabbrica, una strada, un ospedale si possono realizzare in un breve numero di anni (non in Italia!); per formare una classe dirigente molte volte non basta una generazione. Ecco che allora, all’indomani della conseguita o conquistata indipendenza (assai spesso con grande spargimento di sangue e fomentazione di odii insanabili), abbiamo visto, accanto a scene di profonda miseria e di inconcepibile abbandono, venire alla ribalta figure losche, prive di scrupoli, sanguinarie le quali, muovendosi in un tessuto politico-sociale pressoché inesistente e con la complicità degli antichi dominatori, l’hanno fatta da padroni. Non cito nomi perché rischierei di provocare incidenti diplomatici. Ma essi sono presenti alla memoria vostra e mia. La nostra cultura (nostra in senso lato) fondamentalmente cristiana e quindi votata al perdono – specialmente nella parte che recita “rimetti a noi i nostri debiti”!!! – non poteva rimanere insensibile di fronte allo spettacolo offertoci quotidianamente dall’informazione. Ecco quindi la corsa all’aiuto ai bisognosi. Ma poiché la politica dei governanti ha bisogno anche di spettacolo, questo poteva essere garantito dalla visione di navi ed aerei stracolmi di viveri e medicinali: beni senz’altro utili. Ma un po’ meno pieni di interventi più mirati e logici, che non lasciano un segno immediato. Senza contare che talvolta si è trattato di cose delle quali ci si voleva disfare! Voglio dire che se la nave che partiva per l’Africa fosse stata riempita per metà di viveri e per l’altra metà di attrezzature destinate a procurarsi autonomamente nel tempo i viveri stessi, sicuramente oggi qui parleremmo d’altro  E non si venga a dire che questo avrebbe avuto valore di confetti dati ai porci: l’intelligenza e la volontà, se opportunamente educate e sviluppate, non sono patrimonio esclusivo di una pelle colorata o meno.

D’altronde che simili atteggiamenti di soccorso rispondano più ad esigenze politiche che sociali (o quanto meno le prime sono più sentite delle seconde) lo dimostra il fatto che proprio in questi giorni il nostro Ministero degli Esteri, sempre prodigo di pubblico denaro in ogni angolo del mondo, improvvisamente, sotto la spinta degli avvenimenti dell’Est europeo, ha più che dimezzato il proprio contributo ai progetti dell’ONU per dirottarlo al finanziamento di futuri “Piani Marhall” destinati ai Paesi ex comunisti.  E non parliamo poi delle somme ingenti erogate senza controllo alcuno e che sono servite in massima parte ad armare le bande dei non sullodati personaggi e ad impinguare i conti svizzeri dei personaggi medesimi e, sotto forma di tangenti, di quelli che si rendevano complici della destinazione di morte. A questo punto come è possibile pensare di frenare l’umano legittimo desiderio di popolazioni povere da sempre di tentare di dare una svolta alla loro condizione, muovendo i loro passi verso una società della quale conoscono tutto, ma più di tutto l’opulenza? Il nostro pianeta, che ha ormai assunto le caratteristiche di un villaggio globale, non ha più segreti per nessuno: radio, televisione, cinema, stampa, rapidità negli spostamenti ne sono state, e ne sono, cause propulsive. E l’Italia? Anche il nostro Paese ha conosciuto, agli inizi del secolo, il fenomeno della emigrazione; certamente alla base non vi erano tutte quelle ragioni che prima ho elencato, ma alcune sicuramente si. Prima fra tutte l’estrema povertà nella quale versavano le popolazioni del nostro Sud, alla quale aggiungere la conoscenza, sia pure indiretta e sfumata, dell’esistenza di paesi nei quali almeno un lavoro era possibile trovarlo.  E poi, non dobbiamo vergognarci di ammetterlo, la presenza di una classe dirigente estranea, imposta a seguito dell’unità nazionale, da una classe politica che dei problemi del Mezzogiorno aveva scarsa e preconcetta conoscenza.  Ma ecco che il nostro contributo alla valorizzazione dei nuovi mondi (stimato tra i cinque e i sei milioni di persone) dopo il 1950 si esaurisce – anche se continua all’interno del nostro Paese – e inizia il flusso inverso.Esaminate, sia pure sommariamente, le motivazioni che spingono le popolazioni del Terzo mondo ad emigrare, ora dobbiamo chiederci perché prediligono il nostro Paese o almeno così sembra dal nostro osservatorio di interessati.  In parte può accadere perché il nostro livello economico e il nostro tenore di vita rappresentano traguardi ambitissimi per molti popoli, e non soltanto del Terzo mondo. Ma solo in parte, perché se pensiamo che il reddito pro-capite del nostro Paese è almeno venti volte più elevato di quello dei Paesi di provenienza degli immigrati, uno spostamento che obbedisse soltanto a motivazioni economiche assumerebbe dimensioni bibliche. Evidentemente vi è dell’altro.Non è assolutamente il caso di soffermarci sulla figura del rifugiato politico: questa dà maggiori preoccupazioni, anche se molto limitate, più sul piano della qualità che della quantità. E’ che noi non possiamo completamente seppellire la memoria storica rappresentata dalla nostra emigrazione: quanti emigranti o loro diretti immediati discendenti sono ancora vivi in Italia a ricordare a se stessi e agli altri le sofferenze patite? Come pure la diffusa cultura cattolica che si concretizza nel rispetto e nell’aiuto ai diseredati – e qui recupero, pertinentemente, la seconda parte della preghiera: “come noi li rimettiamo ai nostri debitori” Ancora: esiste una giustificazione socio-economica secondo la quale la immigrazione avviene in pratica solo nell’interesse dei Paesi di immigrazione, afferma Massimo Livi Bacci, ordinario di demografia a Firenze. E questo perché l’economia dei paesi sviluppati è al settimo anno di espansione, la disoccupazione sta decrescendo, le popolazioni invecchiano rapidamente, la domanda di lavoro nei servizi sarà probabilmente crescente.  Tutto vero questo? Riconosco di non essere sufficientemente preparato per una risposta. Ma una cosa è certa: qualora fosse vero, il nostro Paese dovrebbe allora munirsi di adeguati strumenti per regolamentare questo fenomeno.  Oggi nessuno strumento esiste se non quello rappresentato dall’art.142 del Testo Unico delle leggi di Pubblica Sicurezza del 18 giugno 1931: dico bene, 1931, più vecchio di me. A parte la necessità di superare pregiudizi nazionalistici e difficoltà di lingua e di frontiera, oggi assolutamente anacronistici, occorre anche realizzare un coordinamento con le legislazioni degli altri Paesi, europei e non, che regolamentano la materia.  La legge 943 del 1986, destinata a sanare situazioni di illegalità è servita a poco o niente: anzi si può affermare che è servita più ai datori di lavoro per sanare, senza penalità, esposizioni contributive.  Non è servita perché contemplava la coda del problema e non il suo manifestarsi e prendere piede. Agli immigrati ha fornito l’occasione, invece, di suonare una specie di tam-tam sintonizzato su lunghezze d’onda interessate per far conoscere che in Italia era possibile entrare e rimanervi a proprio piacimento.  Questo atteggiamento delle nostre autorità non significa affatto democrazia: perché allora dovremmo dire che la Svezia, dove chi è entrato come studente e viene trovato a fare altro senza permesso viene gentilmente ma fermamente accompagnato alla frontiera, dovremmo dire che la Svezia non è un paese democratico. Tale stato di cose esistente in Italia e cioè di non politica, può senz’altro fungere da terreno di coltura per situazioni negative: accattonaggio, abusivismo commerciale, vagabondaggio, minicriminalità, prostituzione, spaccio di droga e così via. Però, lasciatemelo dire, non radicalizziamo troppo il problema. Chi entra in Italia non necessariamente, perché non è di pelle bianca, porta con sé un bagaglio di criminalità latente. Anzi, se la cultura costituisce un insito deterrente alla manifestazione di atteggiamenti contrari alla legge, dovrebbe rassicurarci, almeno in parte, apprendere che uno studio condotto dall’ISPES ha rilevato che l’81 per cento degli immigrati è in possesso di un grado di istruzione che va dalla media alla laurea. Soltanto il 4 per cento è analfabeta.  Veleggiamo su valori nazionali! Certo per arrivare, come fa il Partito comunista (o quasi) italiano, nella affannosa ricerca di nuovi proseliti, a ipotizzare una società plurietnica, ce ne vuole; però non mi convince neppure l’affermazione di Francesco Alberoni secondo il quale la nostra emigrazione era tutt’altra cosa, perché i nostri nonni erano bianchi e cattolici e questi invece sono di colore, di religione islamica, faranno i lavori peggiori, accumuleranno frustrazioni e risentimenti.  Forse abbiamo dimenticato che Al Capone e soci avevano un cognome italiano e che noi abbiamo esportato braccia operose e menti geniali, nel bene e nel male. Però a me piace chiudere questo mio intervento non in chiave polemica, bensì ricordando, a me stesso per primo, che all’occhiello portiamo un distintivo di appartenenza ad una associazione internazionale che ha, nel suo codice etico, una proposizione, la sesta, che mi impone di “Essere solidale con il prossimo mediante l’aiuto ai deboli, il soccorso ai bisognosi, la simpatia ai sofferenti.”.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Il nostro sito web utilizza i cookie per assicurarti la migliore esperienza di navigazione. Per maggiori informazioni sui cookie e su come controllarne l abilitazione sul browser accedi alla nostra Cookie Policy.

Cookie Policy