NORMA AL TEATRO MASSIMO

(Salvatore Aiello)

Foto di Fr. Lannino

Norma, secondo titolo della Stagione di Opere e Balletti del Teatro Massimo, è approdata sulle scene con un allestimento, già sperimentato a Macerata nella scorsa Stagione estiva, dei registi palermitani dei Teatri alchemici, Luigi Di Gangi e Ugo Giacomazzi prestati recentemente al Teatro d’opera e con l’apporto delle scarne scene di Federica Parolini, i costumi di Daniela Cernigliaro, le significative e intense luci di Luigi Biondi. Uno spettacolo nato dall’ispirazione di Maria Lai che affidava a mezzi molto semplici, la creazione di opere intrise di pura poesia. Sullo sfondo tele intessute, corde pronte ad intrecciare ed allentare destini narrando, in maniera monotematica, la vicenda di Norma che come si sa si sostanzia di ben altre letture; esplicite metafore quindi, come il filo rosso che attraversava il palcoscenico, evocavano continuamente la storia di amore e morte della sacerdotessa druidica e del romano fedifrago Pollione. Tutto qui, in quanto la  regia non offriva guizzi particolari né tanto meno affidava ai personaggi particolari gesti o movenze che in verità scadevano in taluni momenti anche in ingenuità. Per il ruolo di Norma, Bellini chiedeva alla sua prima interprete un carattere enciclopedico che possedesse taglio eroico, che fosse amante appassionata e tradita, vendicativa e spergiura e affidava la sua creatura alla voce di Giuditta Pasta. Mariella Devia con dedizione si è impossessata di Norma ma il personaggio è estraneo alle sue corde interpretative e alla sua vocalità. Tecnicamente agguerrita la sua prova ma certamente non riconducibile né alla categoria dei soprani drammatici d’agilità né alla epicità e sublimazione dello stile tragico, fuori dalla scia di Giuditta Pasta prima interprete storica dei Capuleti e di Anna Bolena con un côtè impressionante; pur lodando senza riserve la sua lezione di belcanto, malgrado la lunga carriera, la sua interpretazione, intelligentemente, mirava a liricizzare i momenti più drammatici e temibili dell’opera che risultavano in parte depauperati per carenza di spessore vocale, di articolazione psicologica, di fraseggi e accenti perentori che si addicono ad un’autorevole sacerdotessa dotata di capacità sovrumane ma nello stesso tempo lacerata e disperata. Anche la sua gestualità risultava incompleta per una autentica tragedienne, tuttavia ha preso il pubblico come già detto per l’intonazione perfetta, per la morbidezza dell’impasto, per la nota musicalità e per l’esperienza del palcoscenico. Con lei il Pollione di John Osborn un tenore giunto dal canto barocco e dalle incursioni rossiniane, lontano anch’egli dal dettato belliniano che ravvisava in Donzelli il baritenore o tenore di forza romantico per potenza della voce scura, l’accento deciso, la squisita sensibilità del fraseggio, la recitazione appassionata e vibrante; tuttavia possiamo dire che egli ha agito con penetranti accenti e appropriato uso e dominio della zona acuta. Il cigno catanese  scelse la soave Grisi come Adalgisa che per colore e souplesse si differenziava dal canto teso, scuro della Pasta; Carmela Remigio, rivale e poi amica di Norma, è un soprano eminentemente lirico il cui timbro e colore poco accentuava la diversità del personaggio, però  del tutto a suo agio per pastosità del suono, morbidezza e ricercati pronunciamenti. Adeguato in genere l’Oroveso di Luca Tittolo che avremmo desiderato più autorevole ed incisivo nel timbro e nell’emissione. In buona evidenza completavano il cast Maria Mirò (Clotilde) e Manuel Pierattelli (Flavio). A capo dell’orchestra, posta più in alto alla consueta posizione, ritornava dopo il recente Macbeth, Gabriele Ferro la cui direzione per alcuni momenti ci ha favorevolmente impressionato per cedere poi a passi più o meno significativi per ritmi e caute sonorità più a servizio del palcoscenico che della partitura. Ben funzionante il coro  istruito da Piero Monti.

 

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