GUILLAUME TELL APRE LA STAGIONE DEL MASSIMO

(Salvatore Aiello)

(ph. Rosellina Garbo)

In occasione dei centocinquanta anni dalla morte di Gioacchino Rossini, assai importante il titolo con cui il Teatro Massimo ha inaugurato la Stagione 2018.  Guillaume Tell opera  estrema del compositore pesarese, nonostante il suo grandissimo valore musicale,  non è riuscita a fare parte del repertorio. Fin dalla prima del 1829, la lungaggine dei quattro  atti le alienò la simpatia dei pubblici rimanendo di nicchia. A Palermo si è trattato di un evento perché  lo spettacolo,  collaudato  già nel 2015 al Covent Garden, era atteso per la discussa regia di Damiano Micheletto che ne ha stravolto l’impianto. Non se ne può più dei trasporti di secolo, le opere così sono tutte uguali, un tempo conservavano la loro fisionomia perché ambientate in  secoli  diversi e si andava a teatro per sognare, ora siamo immersi ripetutamente, con arbitraria fantasia, nella cronaca di un telegiornale. Sedie, tavoli e valigie costituivano elementi scenografici nel primo atto e poi, per i tre successivi, incombeva un gigantesco albero sradicato, simbolo doloroso  della sottomissione di un popolo  quale lo svizzero del XIV secolo agli Asburgo. Il regista, pensando ad una condizione eterna tra chi comanda e chi soggiace, trasformava Guillaume in un uomo che il destino ha cambiato in un eroe e parallelamente  si imponeva la difficile storia d’amore tra Arnold e Mathilde con la presenza prestigiosa del coro  protagonista sino all’Inno della libertà che conclude lo spartito. L’opera, nonostante il suo limite di ispirazione registica, è stata accolta favorevolmente da un pubblico numeroso che per la prima volta nella nostra città assisteva all’edizione originale in francese. Dal grand opéra è stata esclusa la danza  la cui musica però veniva usata per dare spazio ad un’orgia che, come se non bastasse, ci consegnava la  spregiudicatezza e l’arroganza degli invasori. La magia della serata era quindi affidata alla musica che ha avuto la meglio su ogni altro elemento  con Gabriele Ferro a capo dell’orchestra in rinnovata giovinezza; il direttore con afflato e in forma smagliante ha diretto e concertato tenendo conto delle dinamiche,dei tempi, dei colori e degli equilibri. Per quanto riguarda le voci il Massimo ha fatto centro poichè allestire un cast all’altezza dell’ardua impresa oggi sembrerebbe quasi impossibile. Guillaume Tell era Roberto Frontali capace di sfumature, accenti particolarmente umani nell’aria del terzo atto: “Sois immobile” ma anche di accensioni patriottiche diventando leader del suo popolo. Dmitry Korchak (Arnold) si è imposto per una prova di belcantismo, avvolta dall’aura romantica, con una voce omogenea, estesa, squillante e  ricca di colori. Meno felice l’esito di Nino Machaidze (Mathilde) per un timbro poco accattivante ma di  disinvolta presenza scenica e di sicura professionalità emersa anche  nel canto di agilità. Con loro spiccavano:  il perfido Gesler di Luca Tittolo per solida  organizzazione vocale, aplomb scenico e vis interpretativa, l’accorato Melcthal, pastore e padre, di Emanuele Cordaro, Anna Maria Sarra che prestava a Jemmy sicurezza e freschezza così come l’imponente Hedwige di Enkelejda Shkoza. Bene tutti gli altri per tenuta vocale ed interpretativa: Paolo Orecchia (Leuthold), Matteo Mezzaro (Rodolphe), Marco Spotti (Walter), Enea Scala (Ruodi), Cosimo Damiano (Un chasseur). Appropriate e significative le luci di Alessandro Carletti, Paolo Fantin firmava le scene e Carla Teti i costumi. Un particolare plauso al Coro istruito da Piero Monti docile ad assecondare i suggerimenti registici, sollecito a momenti nostalgici e ad  impeti guerreschi.

 

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