L’ARDITO

(Racconto di Gabriella Maggio)

La porta in fondo al corridoio era quasi sempre chiusa, quando zio Felice usciva dalla sua stanza l’accostava con cura impedendo anche allo sguardo più acuto di vedere quello che c’era. Nei momenti liberi appena potevo mi mettevo a giocare con le bambole alla fine del corridoio proprio davanti a quella porta. Quando zio Felice usciva e mi vedeva lì davanti alla porta contraeva per un attimo le sopracciglia, ma poi con voce sommessa m’invitava ad alzarmi da terra e ad andare  a giocare in soggiorno sul tappeto, dove sarei stata meglio. Poi infilava veloce le scale e rientrava dopo qualche ora. Zio Felice era anziano, ma aveva un passo agile da giovane,  capelli bianchi e ancora folti.  Mostrava tutta la sua energia se aiutava a portare pacchi, arrampicandosi sulla scala o d’estate nel  trasloco al  mare. Mentre svolgeva questi lavori una piega ironica gli attraversava la bocca e gli occhi guardavano un punto lontano; e se si accorgeva che qualcuno  di casa o dei vicini l’osservava, canticchiava a mezza voce, raddrizzando la schiena e  assumendo un portamento fiero: «Fiamme Nere, avanguardia di morte, siam vessillo di lotta e d’orror, siam l’orgoglio mutato in coorte, per difendere d’Italia l’onor». Poi abbassava gli occhi e riprendeva l’aria sorniona fino al termine del lavoro. In casa era ben accetto a tutti per la sua discreta disponibilità, per il suo rendersi tempestivamente invisibile tutte le volte che era necessario a causa dei contrasti tra i miei genitori per motivi economici. La mia curiosità  per lo zio però cresceva e spesso si manifestava con domande impertinenti.   Un giorno riuscii a gettare uno sguardo dentro la stanza. La  scrivania collocata davanti alla finestra  conteneva pochi oggetti , una cornice con la foto di una donna giovane e sorridente,  un grosso pugnale con un’incisione,  una parola breve  tra foglie, su un brandello di stoffa nera con un teschio bianco, dei  quaderni con la copertina nera, uno aperto  fitto di una scrittura ordinata. Mentre guardavo non mi accorsi che zio Felice era alle mie spalle. Non disse niente, mi spinse nel corridoio  con un tocco leggero sulla spalla e chiuse la porta. Da quel giorno uscì con maggiore attenzione dalla stanza, avendo cura di chiudere a chiave la porta.  Il timore di averlo offeso e di essermi attirata dei rimproveri  mi tormentarono per qualche giorno, poi mi rincuorai perché lui non fece nessuna allusione all’accaduto. Era l’inizio dell’estate e zio Felice trascorreva buona  parte  della giornata a scrivere nella sua stanza,  nel tardo pomeriggio usciva in bicicletta, per riposare la mente. Da poco tempo riceveva dallo Stato  un  piccolo  vitalizio per avere combattuto nella Prima Guerra Mondiale insieme al titolo di Cavaliere di Vittorio Veneto di cui andava molto orgoglioso, ma alla sua maniera schiva ed ironica. Con i soldi del vitalizio faceva a tutti noi dei regali o acquistava piccoli elettrodomestici per la casa. Dell’esperienza di soldato però non raccontava niente. Se gli facevo domande spinta da letture o programmi televisivi, mi rispondeva che c’era poco da dire, che i racconti dei soldati erano tutti uguali e mi sarei annoiata. A volte ripensavo a quel grosso pugnale, al brandello di stoffa su cui era posato ed ero sicura che avessero a che fare con la guerra, la sua guerra. Pensai allora di informarmi in maniera indiretta cominciando a chiedere chi fosse la donna della fotografia. Con mia sorpresa mi disse che era sua moglie morta poco dopo la mia nascita. Rimasto solo non aveva esitato a vendere tutto e a trasferirsi da noi, unici parenti, e a versare il suo capitale nella fabbrica di mio padre che in quel momento non navigava in buone acque. Poi uscì per la solita passeggiata in bicicletta e non mi dette più occasione di fargli le domande che più mi interessavano. Seguiva con attenzione la politica, ma non esprimeva mai giudizi o opinioni nette non per incapacità, come capii col tempo, ma per una forma di saggezza che gli faceva considerare ogni cosa precaria e destinata al mutamento, soprattutto se dette con un tono troppo alto. Se non poteva fare a meno di ascoltare  discussioni animate e contrasti mostrava di comprendere e scusare le nostre debolezze; desideroso di pace, s’impegnava sempre a metterci d’accordo. Non per egoismo, ma per convinzione. Tutti, diceva, devono fare del loro meglio gli uni per gli altri. In occasione della grave crisi finanziaria dell’azienda della nostra famiglia che sfociò nel fallimento fu di grande aiuto morale; ci confortava dicendo che di irreparabile non c’era niente e che bisognava conservare la salute del corpo e della mente. In quell’occasione nel trambusto che aveva cambiato le abitudini familiari spesso stava nella sua stanza con la porta socchiusa sedendo alla scrivania intento ad occuparsi dei suoi quaderni, ma attento a cogliere parole e rumori  come timoroso di qualche disgrazia. Colsi al volo il momento di entrare nella stanza e chiedergli del pugnale. Esitò qualche istante, poi con voce roca per l’emozione mi disse di essere stato un ardito, un soldato d’assalto, determinato a uccidere. Era appena un ragazzo quando fu chiamato in guerra, insofferente della disciplina e della trincea, decise di entrare negli Arditi. Buona paga, lunghe licenze e tutti gli agi di appartenere a un corpo scelto apparvero desiderabili  alla spavalderia della gioventù e cancellarono l’altro più importante  aspetto che riguardava  la freddezza e la ferocia necessarie per compiere il dovere di soldato. Aveva ucciso con determinazione all’inizio, come doveva, aveva schernito con spavalderia la morte pur guardandola negli occhi. Poi erano sopraggiunti  la paura,  il fastidio e l’orrore. Spentasi l’ euforia, ogni cosa per lui aveva mutato aspetto e importanza. Le cose essenziali gli si erano rivelate chiaramente, la vita e il coraggio di affrontare se stessi  fino in fondo erano le principali. Quel pugnale era il suo, era l’arma con cui aveva ucciso e che l’aveva spesso salvato. Quella stoffa nera era la bandiera degli Arditi. Li conservava per non dimenticare. Mi chiese di non parlarne più.

 

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