IL MASSIMO DI ZEFFIRELLI NELL’AFFETTO DEL GRANDE REGISTA PER LA SICILIA

(Carmelo Fucarino)*

Per chi ieri sera sabato 15 giugno affrontava la maestosa scalinata in strascichi e decolté del Teatro Massimo di Palermo, il più grande di Italia, non si è trovato ad assistere alla scena-madre del Padrino- Parte III, 1990, e all’agonia di Mary-Sofia Coppola, figlia di Michael, sulle note della Cavalleria rusticana, nella quale debuttava il figlio, ma lo sorprendeva un maxi ritratto di Franco Zeffirelli. Era un epitaffio ad un uomo che nella sua lunghissima carriera operistica, aveva dato lustro e fama al nostro Massimo con continue presenze e grandissimi interpreti. A lui la dedica della prima di I pagliacci con il sipario di fondale del Teatro Massimo, il protagonista assoluto della storia del cinema e del Teatro siciliano, senza nulla togliere ai nostri artisti. Preciso, siciliano, perché la sua vera carriera ebbe inizio in Sicilia e qui continuò a ritornare, non a Catania che lo ha eletto senatore, ma al Massimo di Palermo. In scena ieri al Teatro Massimo I Pagliacci di Ruggero Leoncavallo. Il Maestro Daniel Oren ha ricordato con ammirazione e commozione Franco Zaffirelli che aveva spesso diretto le opere nello stesso teatro di Palermo. Non ci può che vincere la commozione, noi classe ’38, che un uomo del 1923, fosse stato in un caldo infernale tra le due Aci nel 1948. Il 1° gennaio era entrata in vigore la Costituzione della Repubblica italiana, a luglio Antonio Pallante sparava a Palmiro Togliatti e Bartali vinceva il secondo Tour de France, ad agosto nasceva la Corea del Sud (quella delle TV e dei telefonini). In una torrida giornata FZ cerca pane e tumazzu e olive e fichi d’India. Si girava a 40° gradi La terra trema, libero, anzi liberissimo adattamento di I Malavoglia di Verga, in un vernacolo di Aci, che neppure io prizzese riuscivo ad afferrare. Si trova aiuto regista di un altro gigante il conte Luchino Visconti, assieme ad un altro grande Francesco Rosi, accoppiata che tornerà con Senso nel 1954, il film stupore della nostra infanzia ancora ubriachi di estetismo e di contrasti interiori. Questo amore per l’isola aveva radici profonde, se, come si dice, fu discepolo dell’arringatore di sovrani con le sue lettere ardite da Firenze, quel fascinatore Giorgio La Pira,  lui nato a Pozzallo (Siracusa) ed istitutore del convento S. Marco  di Firenze. Poi il miracolo che segna una vita intera, la conoscenza di Visconti, il conte comunista, quello di Senso, che arruolò lui, appena diplomato all’Accademia di Belle Arti, a 25 anni, figlio appena riconosciuto dal padre e orfano di madre, come scenografo del Troilo e Cressida del bardo inglese. A noi basta questo preludio, una vera ouverture. Interessa il Franzo Zeffirelli e la Sicilia che non si identifica solo con la consueta Cavalleria rusticana dalla quale trasse nel 1982 il film con Elena Obrazcova e Placido Domingo o la regia alla Pergola di Firenze di La lupa con Anna Magnani nel 1964 o La storia della capinera a Catania nel 1993. Il suo dossier con il Massimo si apre nel 1957 con la Linda di Chamounix di Donizetti, una realizzazione tutta sua, regia scenografia e costumi, direttore Tullio Serafin, con Rosanna Carteri e Giuseppe Taddei. Seguì Norma ancora con Serafin, Anita Cerquetti, Franco Corelli e Giulietta Simonato. Tornò nel 1959 con una prestigiosa e rivoluzionaria Figlia del reggimento, ripresa nel 2016, allestimento fortunato, se nel 2016 fu fatto rinascere per cura della direttrice del Royal Opera House di Muscat nel sultanato di Oman, la nostra prizzese Francesca Campagna, con un piede tra lo splendore del suo teatro degli Emirati e i teatri di NY. A ruota sono seguiti nel 1960 scene e costumi per L’Italiana in Algeri e Lucia di Lammermoor (riedita nel 1974) ancora con Serafin e Joan Sutherland e il travolgente Fastaff. Nel 1961 tornò la Sutherland per I puritani (riedito nel 1973), ancora Falstaff nel 1967. Poi il dramma della chiusura del Massimo nel 1974 e la sua associazione a quanti ne perorarono la riapertura avvenuta per volontà di Leoluca Orlando e l’ausilio di Attilio Carioti solo nel 1997. E di questa nuova vita del teatro volle far godere con il suo glorioso allestimento scaligero dell’Aida del 2008. Ieri sera un palermitano di adozione, il maestro Daniel Oren, illuminato da un faro, sul suo podio a scenario calato e deboli luci, gli ha voluto dedicare anche a nome del Sovrintendente Francesco Giambrone, del sindaco Leoluca Orlando e della città tutta l’opera in programma I pagliacci, dal lui diretta con il cast, Canio-Martin Muehle, Nedda-Valeria Sepe, Tonio-Amartuvhin Enkhbat, Beppe-Matteo Mezzaro, Silvio-Elia Fabbian. Oren, con la sua rituale kippah sulla nuca, la sua accalorata vistosa e coinvolgente, saltellante direzione, dalla prima volta nel 2014 con la Tosca è stato sempre presente nelle stagioni d’opera del nostro Teatro Massimo. Tanto per ricordare l’Adriana Lecouvreur con Angela Gheorghiu e Martin Muehle nel 2017 e il grande successo di La bohème con Valeria Sepe e Matthew Polenzani (notare la ricorrenza degli interpreti). Ieri sera con gli occhi in giro per tutta la platea e i palchi, in certi momenti di angosciosa riflessione con lo sguardo rivolto ai colorati affreschi della cupola, ha voluto rievocare la sua profonda amicizia e devozione al maestro che lo ha seguito e guidato in questa sua carriera di direttore. E l’onda della sua nostalgia e dei suoi personali ricordi non poteva che non travolgere chiunque ascoltasse le sue parole tra calda sonorità e pianto, un dolore che veniva dal cuore e sommergeva l’anima. Dall’aneddoto di contatto, la sua presenza nella casa di FZ agli allestimenti, piccoli incontri  in grandi scoperte e realizzazioni. E quello che ha commosso me, ma ritengo anche tutti gli spettatori, tra una pausa di silenzio ed emozione la sua preghiera, strabiliante per il tono e la profondità della sua perorazione. Un appello a lui che ci vede dal cielo e sente il nostro amore per lui e una preghiera a Dio, un Dio che non è Jahvè o Cristo figlio, al Dio di tutti perché accolga la sua anima e gli doni l’eterna beatitudine. Uno tsunami di sentimenti e di amore, sull’orlo del pianto. Amen.  Certamente la partenza di grandi uomini popolari suscita pietà e commozione. La sua scomparsa però segna la fine di un’epoca. Era l’ultimo dei grandi che con il suo fascino e il sorriso aveva incantato le folle, forse non troppo gli artisti che lavoravano con lui per il suo carattere burbero e irruento. Nel bene e nel male, nella diversità dei gusti e delle scelte artistiche, osannato per un certo estetismo e la mania del particolare, ereditata da Visconti o perciò inviso per le sue opere in costume, comunque ha reso un tributo all’arte nel mondo, imperituro, non sostituito e insostituibile, in questa mediocritas neppure aurea, stagnante ed opprimente in ogni settore dell’arte, non solo italiana. Da lui il cinema che spazia da opere liriche eccelse al teatro di grido, a quel suo speciale Francesco di Fratello sole, sorella luna del 1972 o quel Gesù troppo troppo umano in concorrenza con il rivoluzionario di Pasolini, a tantissima TV, fino alla prova di attore in L’onorevole Angelina di Luigi Zampa, sei David di Donatello, un Nastro d’Argento a Venezia, il rimpianto per l’Oscar mancato, con solo due nomination. Anche se tanti Oscar sono stati star per una sola notte. È l’opera creata che ci fa grandi, non i premi pilotati ed effimeri.

*Postato il 17-06-2019  su www.lavocedinewyork.com

 

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