I MEDICI E LA MEDICINA

(Francesco Paolo Rivera *)

Giovanni Meli

Nel Settecento, a Palermo, l’esercizio della attività medica era soggetta a determinati formalismi. Intanto i medici erano – per la quasi totalità – sacerdoti. Per conseguire la laurea medica occorrevano tre anni di studio presso la pubblica Università di Catania (1). L’abate Giovanni Meli, che non era sacerdote ma soltanto chierico (anche se si faceva denominare Abate), in una lettera indirizzata ad un amico descriveva la sua professione di medico: “La medicina viene giudicata in persona di un medico non altrimenti che coi sensi materiali, cioè dalla mole, peso, tono di voce, maniera di vestire e di marciare, dal salire le scale dei grandi, dalla spessa citazione di autori in lingue esotiche ed altre cose simili. Coloro cui mancano questi naturali requisiti ricorrono ai corteggi, agli intrighi ed ai maneggi poco decenti, per cui questa nobile professione è oggi caduta nell’ultimo discredito ed avvilimento.” Il medico non era anche chirurgo, infatti quest’ultimo stava al di sotto del primo, e ne dipendeva nelle prescrizioni che egli eseguiva come barbiere. Il chirurgo seguiva a rispettosa distanza il medico durante la visita ospedaliera. Il medico, essendo un sacerdote, non era abilitato a maneggiare ferri (Eclesia a sanguine abhorret). Nell’ospedale grande e nuovo su diciannove sanitari, soltanto sei erano chirurghi! L’attività chirurgica era limitata … alla litotomia (asportazione di calcoli) e a qualche altra superficiale operazione. Il medico, nelle sue visite ai clienti, era sempre accompagnato da uno o più praticanti, sia per motivi didattici, ma soprattutto perché l’essere accompagnato dai praticanti lo avvantaggiava nella sua reputazione, … pià praticanti accompagnavano il medico più aumentava l’importanza di quest’ultimo agli occhi dei pazienti. Avanti all’ammalato, il medico “osservava” … e i praticanti “riosservavano” …, il degente doveva ripetere e sentirsi ripetere più volte le sue sofferenze!  Il medico dettava ai suoi praticanti … i quali puntualmente prendevano appunti per iscritto, ma scriveva da solo le sue ricette, che consistevano in cifre, parole tecniche latine, abbreviate, dimezzate, spesso composte della sola lettera iniziale … incomprensibili a tutti … nessuno sapeva leggerle … a eccezione degli aromatari (gli attuale farmacisti): ghirigori, puntini, lineette vergate su pezzetti di carta in formule spesso lunghissime.

“Tri cosi ‘un si ponnu capiri:

ricetti di medici,

polici di ‘mpignaturi (2)

e discursi di minchiuni.”(3)

Misteriosa la espressione “R. aqu. ad nostram intentionem” contenuta in molte ricette mediche, dove “R.” stava per “recipe” (prendi) e che indicava, come prescrizione medica, “l’acqua della fonte … l’acqua da bere” … che veniva spacciata a prezzi di medicinale dall’aromatario. (4) Una prescrizione, (che di medicina aveva ben poco, essendo, per sua natura, più una superstizione religiosa), era quella della confessione degli ammalati dopo tre giorni di febbre. Regole Reali  consuetudinarie e sinodi Diocesani imponevano al medico curante un tale comportamento e minacciavano, in caso di omissione della prescrizione, multe salate e, perché no, anche il carcere. Il grande medico Ignazio Salemi (nel suo trattato “Educazione medica”) prescriveva “a tre giorni di malattia si facci eseguire la confessione, ed in più inoltrata malattia ordinare il viatico e l’oleazione sacra.” Ed in considerazione del fatto che tale disposizione era sottoposta sia alle sanzioni canoniche che alle leggi dello Stato “il medico doveva notare il giorno della poliza del viatico sacramentale per potere in qualunque caso giustificare la sua condotta.”  Negli spedali era ordine imprescrittibile che non si potesse ricoverare infermo se prima non si fosse confessato, così come affermava il medico e sacerdote Francesco Emanuele Cangiamila (1702-1763) (5) … e non c’era da scherzare sull’argomento in quanto si rischiava sia il carcere che la scomunica arcivescovile. E passando a esaminare le malattie più frequenti di quell’epoca: la maggior parte dei malati era affetto da malattie cutanee: la “Deputazione dell’Albergo generale dei poveri” lamentava che dei 400 ricoverati, moltissimi avevano la scabbia. Uno speziale che aveva bottega vicino alla “Madonna ‘a Bedda” in via Macqueda, aveva fatto degli ingenti guadagni con un unguento, di sua invenzione, specifico per la scabbia. La quasi totale mancanza di pulizia personale della popolazione, la superstiziosa ignoranza del volgo, contribuivano al diffondersi delle malattie. Un “Breve ragguaglio di quanto praticano, in questa Capitale, le Figlie della Carità, serve delle povere donne inferme, nella loro pubblica casa di protezione di S.Vincenzo de’Paoli, disposta da don Ignazio Filippone ci appresta le seguenti notizie, le quali se attristano per lo stato miserevole del paese, confortano con l’esempio delle opere buone praticate da anime gentili.”(6) Altra gravissima malattia era il vaiolo, che colpiva la popolazione in forma epidemica … era molto raro, a quell’epoca, imbattersi in persone con il viso non butterato dalla “pustedda”:

Non si può dire bedda

S’ ‘un ci passa la pustedda

Grande perplessità, nella popolazione circa l’uso del vaccino contro il vaiolo, sperimentato da Edward Jenner, fino a quando il Re e tutta la Corte decisero di vaccinarsi e … il popolo ne ebbe conoscenza perché vennero “imposte pubbliche preghiere in tutte le chiese”. Anche se la vaccinazione ebbe esiti favorevolissimi, occorre registrare che il figlio di Carlo III perdette due bambini colpiti dal vaiolo. Il Vicerè Caramanico, il 10 ottobre 1787 con suo decreto, ordinava che il servizio di vaccinazione dell’ospedale grande fosse affidato al medico chimico dott. Berna, e l’anno successivo ordinava l’addestramento al metodo di vaccinazione contro il vaiolo di otto barbieri e di otto levatrici, che venivano chiamati a Palermo, ogni primavera e autunno, di volta in volta, dalle principali città dell’Isola. Nel 1769 quella che era denominata “Accademia dei Jatrofisici” divenne “Regia Accademia delle Scienze Mediche” (e poi, Università), istituzione secolare, che godeva di benemerenze e distinzioni da parte del Senato (7). Esisteva anche una “Associazione del Grano” alla quale si pagava a titolo di “abbonamento” un grano alla settimana, che garantiva agli iscritti l’intervento di un medico in caso di malattia. Ma quest’ultima associazione, malvista dal Governo, chiuse presto i battenti … perché “talvolta sono assistiti da imperiti medici che servono a rendere perpetue e più micidiali le malattie del popolo”. La chiusura di tale organizzazione sollecitò il Governo a valorizzare l’opera dell’Accademia di medicina nell’assistenza gratuita ai meno abbienti. La Accademia, nella sua sede in via del Fondaco, nei pressi di Palazzo Sclafani (sede dello Spedale Grande), organizzava, con l’appoggio del Comune, ogni mese, tramite medici di altissima classe, lezioni pubbliche di anatomia, studi sul “mal caduco” (epilessia), sulle epidemie che affliggevano il paese, sulle febbri putride (intossicazioni di vario tipo). Malgrado fossero medici di altissimo livello, il Presidente di tale Accademia P.pe Giuseppe Salerno e il Magistrato Accademico l’Abate Giovanni Meli furono i meno attivi nell’organizzazione di tali riunioni. L’Abate Meli inviò uno studio sugli effetti del veleno di ragnatela, mentre il P.pe Salerno volle fare una riunione ad altissimo livello … come non se ne erano mai viste prima … Nel 1789, il Capo della Città diramò il seguente “nodiglio” (circolare d’invito): “Il Conte di S. Marco, Pretore, la priega volerlo onorare con la sua presenza per il 19 del corrente dicembre ad ore 22 nel Palazzo Senatorio in occasione di una dimostrazione angiologica sopra due corpi di uomo e di donna con il di lei feto con varie riflessioni che dovrà fare il Principe della Reale Accademia dei medici d. Giuseppe Salerno alla presenza del signor Vicerè, e pieno di ossequio si rassegna.” Tutti gli invitati si presentarono all’appuntamento: il Vicerè, il Pretore, i Senatori, i Nobili, i Letterati … si sistemarono nelle loro poltrone, … nessuna signora presente (non era un argomento adatto al gentil sesso) …! L’oratore, in cattedra, illustrò il sistema circolatorio … tutti guardarono ammirati i grafici predisposti all’uopo … qualcuno (medico) non potè fare a meno di commentare subito … “dopo trent’anni tanto chiasso …”,  e un altro … “non dimentichiamo che l’abate Salerno è quello che bandì un concorso a premi … distribuì le medaglie ai vincitori … e poi se le fece restituire … Ecco l’uomo nato per gettare polvere nelli occhi e vivere in mezzo al fumo !”. E, per finire, … l’umoristico commento del medico Stefani Pizzoli “Colleghi cari, volete il ritratto del dr. Salerno? Leggete Cornelio Gallo:

Laudat praeteritos, praesentes despicit annos,

Hoc tantum rectum quod facit ipse putat. (8)

…..

* Lions Club Milano Galleria – distretto 108 Ib-4, matr. 434120

…..

  • solo nel 1780 il privilegio di dottorato in medicina, limitato all’Università di Catania, venne esteso, per sovrana benignità, anche alla Reale Università di Palermo;
  • polizze di pegno;
  • “questo linguaggio simbolico che costa tanta fatica a medici per apprenderlo e ai farmaceuti per capirlo e che cagiona tanti equivoci, dovrebbe essere abolito”, questo il pensiero del grande giurista e filosofo Gaetano Filangieri (1753-1788), nella sua opera di filosofia del diritto, di alto e innovativo valore europeo “La Scienza della Legislazione”, opera che portò alla luce le ingiustizie sociali che affliggevano la maggior parte delle nazioni europee, e che auspicavano una “rivoluzione pacifica” secondo i canoni dell’illuminismo;
  • una barzelletta di quell’epoca sull’argomento “Il figlio di uno speziale squattrinato faceva all’amore con una ragazza di famiglia agiata, quando il padre del ragazzo andò a chiedere la mano della signorina al di lei genitore, quest’ultimo si informò della posizione economica del giovane. Il padre del ragazzo risposte farà lo speziale come me, e alla richiesta di cosa gli avrebbe dato, rispose “un sacco di zucchero e un pozzo di acqua” … infatti lo zucchero garantiva la preparazione dei tantissimi sciroppi, l’acqua per le tisane, le emulsioni, le limonate … di cui si faceva abuso nella farmacopea e che servivano ad arricchire lo speziale ma anche e soprattutto il medico, che scriveva le ricette, amico dell’aromataro.
  • promosse la diffusione del taglio cesareo, tanto su donna morta che su donna viva, al fine di potere amministrare il battesimo del feto, pratica che ebbe effetti positivi essendo riuscito a estrarre il feto vivo da donna morta;
  • la casa Filippone fu un tempo adibita a ospedale femminile, vi si ricoveravano povere donne ammalate che non sapevano dove andare, quelle ammalate che non venivano ricoverate negli ospedali perché “non frebbricitanti”, quelle (anche del ceto medio) che non volevano essere visitate da uomini o che rifiutavano interventi chirurgici. All’ospedale Filippone in genere si facevano ricoverare le donne affette da malattie che non venivano trattate nei pubblici ospedali: cecità, sordità, itterizia, salsu (eruzione cutanea che apportava gran “pizzicore”), scorbuto, impetigine (infezione acuta che colpisce la pelle), tigna (micosi cutanea) ma anche da scrofolosi (tubercolosi delle linfoghiandole superficiali), da scottature e da altra lesioni superficiali esterne, ove le suore curavano senza ferri e con il minor dolore possibile, con farmaci da loro stesse confezionati; in un anno, nella sola Capitale, intervenivano su circa dodicimila pazienti, distribuivano i pasti a circa tremilatrecento poveri e sussidi in denaro a circa millecinquecento persone, e nella succursale di Mezzomonreale apprestavano cure e denaro … in parlatorio (essendo suore di clausura), a molti uomini e a circa duemila donne. Un gran numero di fanciulle affette da tigna, venivano curate dalle suore “senza lo strappo dei capelli” (a volte praticato fino a 24 volte) e senza la feroce cura della “cuffia di pece” … “lu santu chi fa la tigna, fa la pici …”;
  • la maggior benemerenza è forse quella di avere contribuito all’abolizione del seppellimento dei cadaveri dentro le chiese, e in generale entro le città, e il contributo dato alla istruzione dei giovani medici. L’Accademia era quella che, in nome e per conto del Municipio, sceglieva i medici da assegnare agli ospedali. Per la fiducia illimitata dell’autorità municipale, i suoi membri ricoprivano la carica di Magistrato e il suo capo quella di Principe, con tanto di arazzo e di mazza. L’Accademia istituì, al servizio di tutti i cittadini, una specie di condotta medica gratuita: un piccolo cartellino a stampa, sulla porta delle chiese, indicava i nomi dei medici pronti a intervenire, a titolo gratuito, a qualsiasi chiamata di soccorso, e … non si pensi che tale servizio venisse svolto da professionisti di “mezza tacca”, infatti tra i medici pronti a intervenire a favore dei meno abbienti erano il Cottonaro, il Fasulo, il Serra, il Gianconte, il Pizzoli, e altri… che a quell’epoca erano considerati i più illustri professionisti;
  • la traduzione (per chi non ricordasse più il latino): “Loda gli anni passati, gli anni presenti disprezza. Soltanto stima retto quello che fa lui stesso.”

 

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