I VIAGGI DELLA CIOCCOLATA

(Giuseppe Pippo Visconti )

Il volo è comodo, di linea, non c’è nessun bisogno di alzatacce. Decolla nel pomeriggio già inoltrato: a Torino ci arrivo quindi a sera, col giorno che spira dentro l’aereo, quasi di colpo e a metà del viaggio.   Quasi sempre scendo allo stesso albergo: poche stelle, bastanti però a farmi ottenere un letto col materasso senza avvallamenti, e una doccia con la cabina rigida, senza quella maledetta tenda impermeabile anche al senso di fastidio che provavo nei miei primi viaggi; mi abbracciava gambe e braccia come un polpo, anzi come una polpessa, aderiva alla pelle delle mie spalle come una gigantesca, insolente e antiigienica ventosa fradicia di schiuma, mentre usavo quel sapone un po’ sospetto che trovavo nelle bustine mignon, massimo due, posate sulla mensola dell’antiestetico specchio ovalizzato di plastica bianca. Pure stasera il letto è comodo, anche se di una comodità anonima e senza alcun calore, priva di quella familiarità che invece trovo in un appartamento, anche se ci entro per la prima volta, quando per mie ragioni lo preferisco ad una camera d’albergo.   Cerco di assonnarmi guardando un film d’autore del tipo lunghe pause e dialoghi scarni, tutto primi piani o tutto piani lunghi, silenziosi, tratto sicuramente da un racconto di cui però non ricordo il nome del responsabile di tanta noia e neanche il titolo: il piccolo televisore che dovrebbe essere a colori, mette in mostra solo dei gialli insoliti, pallidi blu, e dei verdi inaccettabili: è un quadro surrealista in movimento. Lo spengo dal telecomando, inutile seguirlo al solo scopo di addormentarmi. Dopo un po’ però mi alzo uguale per prendere una bottiglietta d’acqua dal minuscolo frigo incassato sotto il tavolino: sopra ad esso, sparsi, tre fogli di carta da lettere intestata dell’hotel, come se uno venisse a Torino per scrivere una lettera, poi ancora un elenco di numeri e di locali utili – quanto a me utili sarebbe tutto da verificare – vicini all’albergo e infine un paio di guide della città; c’erano già, sempre le stesse, quando venni la prima volta, due anni fa. Ti guidano in italiano e anche in inglese; se sei spagnolo o francese ti toccherà chiedere informazioni al portiere, sperando che abbia almeno l’esperienza per capirti.    Sopra al tavolo, affisso al muro, il foglio con l’elenco di istruzioni da seguire in caso di incendio che probabilmente nessuno ha mai letto, tranne me naturalmente che ogni volta ricontrollo, caso mai dovesse esserci qualcosa di diverso. La temperatura in camera è perfetta, nessun ronzio di nessuna ventola che possa infastidire, e attorno, oltre le pareti della stanza, rumori assai discreti rivelano presenze che però risultano piacevoli e concilianti il sonno; soltanto, a intervalli irregolari, il quasi silenzio è spezzato da volgari scrosci di sciacquoni, che seguono di qualche minuto il rientro da probabili tristi, doverose e troppo lunghe cene di lavoro. Eppure riesco ad addormentarmi: non tanto da poter dire “ho sognato solo che non ricordo cosa”, ma un dormiveglia senza l’ansia di dover dormire a tutti i costi, quello sì, quello penso che si possa dire. Quando invece arriva il momento in cui capisco che da quel punto in poi rimarrò comunque vigile, allora non cerco più di simulare; scendo dal letto e apro la finestra del balcone, lasciando però abbassata la serranda fino al pavimento: dai suoi minuscoli, numerosi fori, entra, sono sicuro di vederla entrare, l’aria scura e densa della notte portandosi appresso decine di rumori: non è del tutto completato, in questa parte di città, il cambio turno tra il popolo del giorno e quello della notte. Invece che contare pecorelle inizio un gioco con me stesso: seduto con le spalle contro la testiera che ho resa morbida frapponendo due cuscini, le gambe rannicchiate contro il petto, tento di capire, per ogni calpestio che sento giù nella via, se chi sta passando sia un giovane o una donna con bambino, un ubriaco o addirittura se è qualcuno che è già passato poco prima. Non è importante indovinare, non mi affaccio di certo a controllare se ho pensato giusto: il gioco consiste nell’impegnarsi a fondo ad accoppiare un rumor di passi a un certo tipo di persona. E’ un gioco di cui non tengo il punteggio, di cui alla fine non so se io abbia vinto oppure perso; è un gioco stupido, lo so, senza nessuna posta, non digitalizzabile per qualche video game.   Comunque vada il resto della notte, io l’indomani, alle dieci meno venti, obbediente come un pupo comandato da un filo lungo mille e mille miglia, sono davanti alla vetrina grande della cioccolateria. Nelle pasticcerie di giù, a casa mia, la regina è la ricotta, perciò è il chiaro che predomina, con qualche macchia di colore, giusto quelle della frutta. Qui invece le vetrine sono più scure, brune, sono austere come lo è il cacao, perciò si usa molto l’oro per contrasto. Quasi mi spiace essere del tutto indifferente alla voluttà del cioccolato, perché ho visto che molta gente si perde anche solo nel guardarlo. Ma sono qui per una seria commissione, e infatti passa meno di un minuto che mi apre invitandomi a entrare Mimmo Gioè, il figlioccio di don Pino, la persona che mi manda. Mimmo, che ha fatto fortuna e anche in fretta da quando è arrivato qui, nel ’77, neanche quasi mi saluta, per lui sono come un fattorino da mandare via al più presto, ma nello stesso tempo da servire come il più importante tra i clienti del negozio. E’ nella tranquillità del suo ufficio che inizia il rito che va avanti da non so quanto tempo: prima di me veniva qualcun altro, ma non so chi fosse, né per quanti anni ha fatto quello che faccio io adesso. Siamo a un tavolino, seduti uno di fronte all’altro; al centro di esso un bilancino di precisione, la qualità che occorre in queste occasioni. Per prima cosa lui si sfila dal dito e pesa la sua fede; la riconosco, la riconoscerei anche tra cento anelli simili, da quanto è lucida e splendente. La cifra digitale che spunta sul display è sempre la stessa, i soliti sette grammi di oro zecchino, preziosissimo regalo di zio Pino, e non solo per il peso; Mimmo se la toglie solo per il commercio che intrattiene con me, e poi mai più, da quando si è sposato. La seconda a essere pesata è la mia bustina; su di essa c’è una sua sigla per cui il peso della tara è garantito; la polvere che è dentro è invece venuta con me dalla Sicilia: anche il peso di essa è sempre uguale. Se la mette in tasca senza nemmeno una smorfia di soddisfazione. Pesa poi la sua di busta: è anch’essa trasparente ma più grande della mia e contiene nove tavolette di cioccolata quasi pura; il quasi ha a che vedere con la polvere che gli ho portato il mese prima: lo zio Pino ne è goloso e non può più farne a meno. Delle spedizioni non si fida: di me sì, almeno quanto basta perché io possa fare il fattorino. Quarta e ultima ad essere pesata è la mia fede, quella al dito, l’unica che mi è rimasta. Cinque grammi, diciotto carati, ma ugualmente preziosissima, una sorta di bandiera della Croce rossa per i posti che frequento giù a Palermo. Stesso peso: il rito si è compiuto. Non fidarsi non solo è meglio, per queste cose è obbligatorio. Metto le tavolette nella scatola a temperatura controllata, altro gioiello che mi porto appresso, faccio un cenno di saluto a Mimmo che ricambia senza alcun sorriso.

– Ci vediamo il 19 – dico io.

– Ci vediamo il 19 – mi conferma alzandosi e guardando già la porta.

In realtà sappiamo entrambi, senza essercelo mai detto, che non dipenderà da noi. E’ che ci illudiamo, ciascuno a modo suo, che questa vita siamo stati noi da soli ad essercela scelta.

 

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