LA CAPPELLA SANSEVERO

(Carla Amirante)

Per il turista che si reca a Napoli le cose belle da vedere sono veramente tante e tra queste in particolare la Cappella gentilizia Sansevero, un vero gioiello architettonico, un luogo molto suggestivo in stile Barocco, costruita dalla nobile famiglia dei di Sangro per dare degna sepoltura ai suoi membri.  La Cappella, detta anche chiesa di Santa Maria della Pietà o Pietatella, con il suo adiacente Museo, fu descritta da Benedetto Croce in Storie e leggende napoletane «ricolma di barocche e stupefacenti opere d’arte … ». Situata vicino alla piazza di San Domenico Maggiore oggi sconsacrata, la Chiesa una volta era separata dal palazzo dei principi di Sansevero da un vicolo con un ponte sospeso che consentiva ai membri della famiglia di accedere ad essa privatamente. Molte sono le leggende negative nate sulla Cappella Sansevero e il suo ideatore, Raimondo di Sangro, forse a causa degli strani bagliori che periodicamente uscivano dai laboratori posti nelle cantine del palazzo di famiglia e vicino alla Cappella. Lì il principe lavorava e realizzava le sue invenzioni suscitando così la fantasia del popolo che ne provava timore e creava racconti inquietanti su di lui.

Raimondo di Sangro

 La leggenda più famosa riguarda la statua del Cristo velato, infatti la gente credeva che il velo, adagiato sul corpo, non fosse stato scolpito nel marmo, ma fosse invece un tessuto, trasformato poi in marmo per mezzo di un  misterioso processo alchemico.

Un’altra leggenda raccontava che la chiesa era stata eretta sopra un antico tempio dedicato alla dea Iside. Un’altra leggenda ancora, del 1623, narrava che un uomo, ingiustamente arrestato, transitando lungo il muro del palazzo dei Sansevero, si votò alla Santa Vergine e una parte del muro improvvisamente crollò, mostrando un dipinto della Vergine invocata, una pietà che in seguito diede alla chiesa il nome di Santa Maria della Pietà. L’uomo, riconosciuto  innocente, si ricordò del voto fatto alla Madonna e, grato, fece restaurare il dipinto, poi fece porre davanti a questo una lampada d’argento sempre accesa. Il luogo sacro presto divenne meta di pellegrinaggio; anche il duca Giovan Francesco di Sangro, colpito da grave malattia, fece voto a questa Madonna e, una volta risanato, fece erigere la piccola cappella di Santa Maria della Pietà, soprannominata la Pietatella.  Secondo studi recenti, la cappella sarebbe stata eretta per volere di Adriana Carafa della Spina, seconda moglie di Giovan Francesco di Sangro, per salvare l’anima del figlio Fabrizio Carafa, amante di Maria D’Avalos e ucciso insieme alla donna dal marito di costei, Carlo Gesualdo da Venosa. Da alcune polizze del Banco di Napoli si evince che la costruzione della chiesetta gentilizia sia iniziata nel 1593 e poi continuata 20 anni dopo da Alessandro di Sansevero, Patriarca di Alessandria ed Arcivescovo di Benevento, che la ingrandì per potere accogliere le spoglie di tutti i di Sangro, come testimonia la lapide marmorea del 1613 posta sopra l’ingresso principale dell’edificio. Dagli anni quaranta del ‘700, il principe Raimondo di Sangro ampliò ulteriormente la Cappella per farne una struttura maestosa e così celebrare degnamente la grandezza del casato dei di Sangro. Il principe ingaggiò artisti di fama internazionale quali Giuseppe Sanmartino, Antonio Corradini, Francesco Queirolo e Francesco Celebrano che realizzarono i tre capolavori del  Cristo velato, della Pudicizia, del Disinganno e altre opere meritevoli ma non altrettanto famose.

Pudicizia

 Raimondo fu un committente generoso ma esigente, contrasse debiti per portare a termine la realizzazione della cappella e spesso diresse personalmente i lavori perché le opere fossero all’altezza del grande progetto da lui voluto. Egli  stesso, nel suo laboratorio, realizzò alcuni materiali necessari alla costruzione e alla fine dei lavori, sulla porta laterale della Pietatella, fece porre una lapide con la data 1767.  La Cappella presenta vari elementi, che riflettono i principi massonici di Raimondo di Sangro, settimo principe di Sansevero, dove si possono ammirare 10 bellissime statue e tra queste molto interessanti sono quelle della Pudicizia,  del Disinganno e in particolare del Cristo velato, un’opera conosciuta in tutto il mondo per il velo marmoreo che impalpabile ricopre il corpo morto del Cristo. Per l’impianto statuario, il Principe chiamò l’ottantaquattrenne Antonio Corradini, che riuscì ad ultimare la statua della Pudicizia, dedicata alla madre del principe Raimondo, Cecilia Gaetani morta poco dopo la nascita del figlio. La Pudicizia si presenta come una donna cinta in vita da una ghirlanda di rose e tutta coperta da un velo semitrasparente, che lascia intravedere le forme e i tratti del viso. Alla base della statua un incensiere e una lapide spezzata fanno riferimento alla morte prematura della nobildonna; il ramo di quercia, anch’esso posto in basso, rimanda all’albero della conoscenza o all’albero della vita; la statua poggia su di un pilastro dove un bassorilievo, riprendendo il tema della vita e della morte, rappresenta l’episodio evangelico del Noli me tangere, quando Gesù risorto dice alla Maddalena di non toccarlo e di non trattenerlo nel mondo dei vivi. La statua può essere vista anche come un’allegoria della sapienza, con un riferimento alla Iside velata, dea egizia della scienza iniziatica e sembra che, in quello stesso luogo, una volta ci fosse stata una statua della dea. Altra opera molto bella è la statua del Disinganno del Queirolo, dedicata ad Antonio di Sangro, padre del principe Raimondo, che raffigura un uomo mentre si libera dalla rete, simbolo del peccato. Il duca Antonio, in seguito alla morte della giovane moglie avvenuta un anno dopo la nascita del figlio, condusse una vita dedita ai vizi viaggiando in tutta Europa, mentre il piccolo Raimondo fu affidato al nonno paterno. Divenuto anziano, il padre tornò a Napoli e, pentito dei peccati commessi, abbracciò la fede vivendo piamente. Nella composizione marmorea ciò che colpisce maggiormente è la fitta rete della scultura, simbolo del peccato, la quale avvolge un uomo intento a liberarsene mentre un putto, che rappresenta l’intelletto umano, lo aiuta e indica, con la mano destra e ai suoi pied, il globo terrestre, immagine della mondanità. Una Bibbia aperta, appoggiata sul globo, rappresentata la fede che permette di liberarsi dagli errori commessi. Nel basamento del pilastro, un bassorilievo mostra Gesù che dona la vista al cieco. Lo storico G. Origlia, in Istoria dello studio di Napoli, afferma che l’iconografia del Disinganno fu «tutta d’invenzione del Principe, e nel suo genere totalmente nuova». In essa ci sono elementi massonici: il bendaggio degli iniziati durante le iniziazioni per entrare nella loggia e poi il permesso di aprire gli occhi per comprendere la verità. Una lapide indica Antonio di Sangro come esempio della «fragilità umana, cui non è concesso avere grandi virtù senza vizi».

Il disinganno

Ma il vero gioiello artistico della Cappella gentilizia è la statua marmorea del Cristo velato che doveva essere eseguita da Antonio Corradini, ma l’artista morì nel 1752; Raimondo di Sangro allora incaricò un giovane artista napoletano, Giuseppe Sanmartino di realizzare “una statua di marmo scolpita a grandezza naturale, rappresentante Nostro Signore Gesù Cristo morto, coperto da un sudario trasparente realizzato dallo stesso blocco della statua”. Il Cristo velato è quindi un’opera realizzata interamente col marmo, ricavata da un unico blocco di pietra, come si può constatare da un attenta osservazione e come attestano i documenti del tempo. Il Sanmartino non prese in considerazione il bozzetto dello scultore veneto e, seguendo il suo istinto artistico, creò un‘opera altamente drammatica con un Cristo sofferente, simbolo del destino e del riscatto dell’intera umanità. Proprio il velo è l’elemento più notevole della statua che evidenzia l’abilità dello scultore e, come nella Pudicizia del Corradini, copre il corpo senza celarlo. Sanmartino ha dato al panno una plasticità e un movimento che si discostano dai rigidi canoni del maestro veneto, lo fa aderire alle ferite del corpo del Cristo, al costato scavato, mettendo in luce, anziché nascondere, il dolore e la sofferenza. Con uno stile tardo barocco l’artista scolpisce, scarnifica quel corpo senza vita, ne accentua la vena gonfia sulla fronte, ne delinea le trafitture dei chiodi sui piedi e sulle mani sottili. Il costato, scavato e rilassato nella morte liberatrice, è il segno di una ricerca intensa che evita i preziosismi e i canoni di scuola, la cui drammaticità viene accentuata dal contrasto con le coltri morbide e la copertura del velo che rende ancora esposte le povere membra e precisa le linee del corpo martoriato. Così pure i ricami minuziosi dei bordi del sudario e degli strumenti della Passione posti ai piedi del Cristo accentuano questo contrasto. Il Cristo velato è, dunque, una perla dell’arte barocca creata dal Sanmartino senza l’aiuto di alcuna escogitazione alchemica, bella e perfetta come voleva Raimondo di Sangro che voleva suscitare sempre meraviglia. Il principe stesso ebbe a dire che quel velo marmoreo era tanto impalpabile e “fatto con tanta arte da lasciare stupiti i più abili osservatori”. Così è avvenuto che molte persone famose del passato hanno esaltato la bellezza dell’opera come il celebre scultore Antonio Canova, che durante il suo soggiorno napoletano provò ad acquistarla e in seguito dichiarò « che avrebbe dato dieci anni della sua vita pur di essere lo scultore di quel marmo incomparabile». Tra i personaggi contemporanei ricordiamo il maestro Riccardo Muti che ha scelto il volto del Cristo per la copertina del Requiem di Mozart da lui eseguito; lo scrittore argentino Hector Bianciotti che ha parlato di “sindrome di Stendhal” guardando quel velo marmoreo; Adonis, uno poeta tra i più grandi del nostro tempo, in un’intervista rilasciata a «Il Mattino»,  ha definito il Cristo velato “più bello delle sculture di Michelangelo”.

 

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