LA CARESTIA IN PALERMO DEL 1793

(Francesco Paolo Rivera *)

Palermo

Spesso, a causa di avvenimenti atmosferici sfavorevoli, ma anche per errori economici del Senato e del Governo, si verificavano grandi carestie che si abbattevano sulla popolazione. Proprio nel 1793, la piaga della carestia si abbattè su Palermo, mancava il frumento, e la povera gente si era ridotta a cibarsi di erbe selvatiche, di fichi d’india non maturi che cuocevano nell’aceto, strappavano ai cani il nutrimento che i padroni gettavano per sfamarli, si moriva letteralmente di fame. Molti, coloro che a causa della mancanza di cibi nelle campagne si trasferivano nella grande città, sperando di trovare qualcosa da mangiare, ma così facendo aumentava la popolazione dei derelitti Giovanni Meli scrisse: “l’erbi cchiù vivi e inutili, li radichi nocivi, cu l’animali spartinu, l’omini appena vivi;” … e inoltre: “mmenzo li strati pubblici, lu passaggeri abbucca, cu facci smunta e pallida, cu poca d’erba in bucca.” Per la mancanza di nutrimento si moriva, oltre che per la fame, anche per malattie, come le “febbri putride” (1). Il Monte di Pietà, soverchiato da continue richieste di denaro, chiusero le porte, la povera gente, per reperire qualche soldo che consentisse loro di comprare qualcosa da mettere sotto i denti, avevano venduto il mobilio di poco valore, e persino i letti, i cavalletti (come ferro vecchio) e gli “stramazzi” (2), conservando soltanto qualche coperta per coprirsi durante la notte. Fortunatamente avanti a tanto sfacelo e desolazione, sia il Vicerè (di tasca propria), che l’Arcivescovado e anche i signori benestanti si diedero da fare per sfamare le folle.  Il Senato acquistò grossi quantitativi di grano, i panificatori sfornavano “guastidduna” (3) che vendevano a prezzi ridotti (un tarì), le confraternite e le case religiose distribuivano minestre e pane ai bisognosi, i monasteri e particolarmente i Cappuccini sfamavano migliaia di affamati. Si organizzarono i mezzi per trasportare i poveri che erano affluiti in città, in cerca di cibo, ai luoghi di provenienza. Il Vicerè p.pe di Caramanico, fornì – a sue spese – tutto quanto si rese necessario sia per il trasferimento nei luoghi di origine, di questa grande massa di derelitti, sia dei generi alimentari, sia generi di vestiario. Fornì anche un piccolo sussidio di quattro tarì a persona, organizzò – sempre a sue spese – i carriaggi per il trasporto delle persone con l’accompagnamento dei soldati di marina, fino a Termini e, per le altre masse che arrivavano in continuazione, fino a un centro di raccolta a Mezzomonreale. Questo il commento del m.se di Villabianca (nel suo diario): “solo con questo metodo e per pochi mesi, la desolata città si libera del lurido vermicaio e, per esso, dalle “cassariote” cresciute all’infinito per la infinita miseria.” Se il Vicerè Caramanico fece miracoli in quell’inferno, non si può dimenticare tutto quanto altro fecero altre comunità siciliane per sopperire a tale grande calamità di cui fu vittima la Sicilia tutta. La comunità di Val di Mazzara, il Vescovo di Cefalù, Francesco Vanni, furono tra coloro che contribuirono con notevoli e generosi esborsi di denaro, ad alleviare la fame della popolazione, il b.ne Giuseppe Agnello sborsò ventimila scudi per acquistare frumento per salvare il paese dalla fame e dalla carestia, solo per citare coloro che con la loro generosità furono additati ai posteri, ma tanti altri contribuirono. La città attirava gente affamata dal contado e da altri centri abitati, … presumevano di trovare il pane, … già in occasioni di precedenti carestie (quella del 1764 ricordata anche per una terribile epidemia e quella ancora peggiore del 1624) il Senato, anche con gravissimi esborsi economici, acquistava ingenti quantitativi di frumento per sfamare la popolazione. Migliaia di uomini, donne, fanciulli, a causa anche della macilenza e della sporcizia sviluppavano esalazioni putride nell’aria e il “morbo castrenze” (4). La Deputazione di salute, interveniva, dove e quando poteva, anche cercando di rimandare nelle terre di provenienza questi immigrati pericolosi.  Un anonimo cronista francese accusò la amministrazione pubblica di disinteresse, purtroppo il fenomeno era talmente vasto che non si riusciva a far fronte alla enorme ressa di mendicanti; e, l’inglese John Galt (1779-1839), alcuni anni dopo, riferendosi all’elevato numero di questuanti avanti le porte dei conventi palermitani, scriveva “L’effetto di questo concorso, attrista. La povertà diviene ogni giorno peggiore, e in Palermo il numero dei limosinanti è visibilmente cresciuto negli ultimi venti anni.” e, dopo la visita al duomo di Cefalù, commentò: “un tempio senza pari e una miseria senza nome.”  La miseria più nera appariva, nella sua crudezza più ributtante, anche all’interno della Sicilia, e il Meli così la descrisse:

“Il primo aspetto della maggior parte dei paesi e dei casali del nostro Regno, annunzia la fame e la miseria. Non vi si trova da comprare né carne né caci, né tantomeno del pane, perché tolto qualche benestante, che panizza in sua casa per uso proprio, tutto il dippiù dei villani bifolchi, si nutrono d’erbe e di legumi, e nell’autunno di alcuni frutti, spesso selvatici e di fichi d’india. Non si incontrano che facce squallide sopra corpo macilenti, coperti di lane sudicie e cenciose. Negli occhi e nelle gote dei giovani e delle zitelle, invece di brillarvi il naturale fuoco d’amore, vi alberga la mestizia, e si vedono smunte, arsicce (5), deformi sospirare per un pezzetto di pane, ch’essi apprezzano per il massimo dei beni della loro vita. I padri di questi infelici si reputano fortunati se al Natale di N.S. o alla Pasqua possono giungere a divider con la loro famiglia il piacere di assaggiare un po’ di carne. Il pane istesso (se pur merita questo nome un masso di creta) loro non si accorda che nelle giornate di somme fatiche, nelle quali oltre le zuppe di fave e fagioli, vengono ancora gratificati di un vinetto detto acquarello.”

Lo scrittore comasco Carlo Castone Rezzonico della Torre (1742-1796), meravigliato dall’enorme numero di storpi, di muti, di cenciosi (che definì gravissimo flagello dell’umanità dal quale la Sicilia non vedrà mai liberata), raccontò:

Ai belli Frati (6) ragazzi ignudi o coperti di cenci, che né di dietro né d’avanti nulla celavano, assediano i viaggiatori, e chiedono importunamente l’elemosina, ed io dovei dividere con loro il pane e l’uva, e giunsero fino a rubarmi dal piatto le spolpate ossa e le reliquie del tumultuario (7) desinare, che ai cani si destinavano e ai porci, di cui qui sono numerose le greggi. Ad Alcamo, con le sue merlate mura e le torri, ora quadre ora rotonde del suo castello, regna la miseria e lo squallore, avvegnachè (8) vi siano alcuni ricchi cittadini e qualche bella casa di magnifica apparenza.”

Nel 1795, un anonimo scrittore di Palermo, sdegnato da tanta indegnità, pubblicò nel Giornale di Sicilia (9) un articolo mediante il quale sosteneva che dove i governi sono riusciti a fare osservare le leggi e le consuetudini antiche e moderne contro la piaga morale degli oziosi, si vede che, bandita la mendicità e la scostumatezza, fioriscono le arti. “…basta che si rifletta che invece di questa povertà importuna, oziosa e libertina ugualmente perniciosa ed alli buoni costumi ed allo stato, si vedrebbe rinascere la povertà dei primi tempi, umile, modesta, frugale, robusta e industriosa, e che questa medesima povertà diverrebbe la madre fertile dell’agricoltura, la madre ingegnosa delle belle arti e di tutte le manifatture.”

*Lions Club Milano Galleria-distretto 108 Ib4

Note:

  • “Saproemia”, prodotta dalla vegetazione di germi tossici su tessuti organici devitalizzati, o da mucose responsabile della putrefazione;
  • I materassi,
  • Questa forma di pane pesava circa un kg e mezzo;
  • Il tifo petecchiale, che si denominava “castrense” perché si generava spesso degli accampamenti militare durante le guerre;
  • Rinsecchite, inaridite;
  • Villafrate;
  • Disordinato, confuso;
  • Quantunque;
  • L’attuale quotidiano “Giornale di Sicilia” fu fondato da Girolamo Ardizzone nel 1860, precedentemente i giornali (pubblicati dal 1793 al 1805), generalmente di quattro pagine (al prezzo di 5 grani, o di 1 tarì al mese) erano settimanali (vita media tre anni), gli articoli erano anonimi e senza titolo, quello che fu denominato “Giornale di Sicilia” anteriore a quello attuale, trattava di manifestazioni, processioni, visite a monasteri, dopo la fuga della famiglia reale da Napoli a Palermo, assunse la funzione del quotidiano attuale.

 

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