DANZANDO SULL’ORLO DELL’ABISSO

Romanzo di Grégoire Delacourt (traduzione di Tania Spagnoli) – DeA Planeta, 2019

Luigi  Alviggi *

Danzando sull’orlo dell’abisso! Mai titolo fu più indovinato. Una simbologia figurata, la vita in ogni sua espressione: quella di ieri, di oggi, di domani, una danza racchiusa tra pazzie e giravolte. L’unica che accompagna ogni ora, giorno, anno dell’esistenza, senza sapere se si saprà mantenere l’equilibrio oppure, travolti da un soffio di vento che fa scivolare su una minima asperità, si finirà nell’abisso spalancato al fianco, inconoscibile nei misteri e spietato nel destino. Qui vediamo una vita disperdersi in balia di un amore sconfinato, nato dal nulla e che muove all’inverosimile, fino all’abbandono degli affetti più saldi nel cuore di ogni donna per un sogno a occhi aperti. Corre lei, sfrenata e cieca, verso la perdita di controllo che obbliga a passi fin allora del tutto inammissibili. La voce narrante – Emma(nuelle) – denuncia: “Vorrei soltanto provare a smontare il meccanismo del disastro. Capire perché, in seguito, ho trafitto per sempre il cuore delle persone che amavo.” Entrando in una coscienza alterata ci affacciamo all’incredibile: le vertigini, di qualunque tipo siano, non possono avere metro di misura. Sono sventure che colpiscono tra capo e collo. Corre in mente il celeberrimo inizio dell’“Anna Karenina” (1877) tolstojano: “Tutte le famiglie felici si somigliano, invece ogni famiglia infelice lo è a modo suo”. E tutto nasce in un piccolo centro in Francia da una sposa e madre quarantenne gestrice di un negozio di abbigliamento per bimbi. Il marito Olivier ne gestisce un altro “per bambini dai diciotto ai novant’otto anni: un’importante concessionaria della BMW”. Con questo posto privilegiato cambia l’auto ogni pochi mesi. La prima parte espone un perfetto sentire femminile, ricostruendo il processo psichico di un’infatuazione muliebre. Donna sposata da quasi vent’anni con un marito affettuoso e tre figli adolescenti, ma certo presa da quella noia che ogni unione, per quanto salda all’inizio, finisce col trascinarsi appresso fin quando tutto diventa troppo pesante da sopportare per andare avanti in un modo o nell’altro. Magistrale Delacourt nel descrivere il nulla d’origine e il suo procedere inarrestabile verso l’irragionevole. Perché di questo si tratta quando, tra due sconosciuti, c’è solo uno sguardo fuggitivo senza che gli occhi si incrocino, e lei già sente macigni interni spostarsi, in un equilibrio che solo adesso avverte precario, verso qualcosa di indefinibile ma che è esistito in qualche recesso fin allora del tutto silente. Il sogno della donna, il giorno dopo aver veduto in una brasserie l’uomo a un tavolo distante insieme ad amici, è già quello di divorarne la bocca come “fragola succosa”. Il sorriso al cameriere di un lui, seduto lontano, equivale a una prima parola rivoltale che la fa sentire già desiderata. No! addirittura “saccheggiata”! Quando si dice il fulmine cadere sulle spalle per sprofondare vite e sorti nell’abisso!Nel primo scambio verbale, qualche giorno dopo, l’uomo confesserà di essere rimasto a mmaliato dalla malinconia, spirante da lei come un incendio che lo ha avvampato. Nemmeno sa che, prima ancora di essersi detta una parola, lei ha già imbucato la lettera di dimissioni dal negozio che gestisce da alcuni anni al posto della padrona malata. Senza che nulla sia accaduto, Emma ha sentito riaccendersi velleità anestetizzate dalla routine di moglie e madre. Eppure ha molti bei ricordi del passato. Può rievocare le volte che Olivier ha bevuto le sue lacrime, gli ardori appassionati che migliaia di volte si sono scambiati in una partecipazione senza freni, condivisa come un mattino di sole splendente nel quale le nubi sono fuori dall’orizzonte, remote da mente e sentire. Ma oggi le belle cose passate servono solo ad accrescere il dolore di far del male a chi le ha dimostrato amore e protezione. E dei figli, del loro attaccamento intenso, della fiorente adolescenza, dell’amore sconfinato e ricambiato, che ne farà di questo grande tesoro che il destino le ha affidato e del quale non sembra più sentire peso e responsabilità? C’è troppo anche per abbattere una montagna: “i nostri corpi non sono mai abbastanza vasti da poterci seppellire dentro tutti i nostri dolori”! Nelle prime parole Alexandre confessa di essere sposato e di pensare fisso a lei dal primo momento.  Se la confessione viene troppe volte omessa, difficile dire quanti uomini non dicano subito quanto segue. Quando si guarda con occhi estranei all’innamoramento – volga poi esso in amore grande o piccolo –, è facile sorridere a dichiarazioni sempre simili nella sostanza. Ma il sentimento forte intorbidisce i pensieri e spesso è già tutto segnato prima di ogni possibile seguito. Se così non fosse non sarebbe amore ma solo espressione di misera ragione… Il primo sviluppo, anche qui, è il piacersi reciproco di ogni cosa: la voce, il muovere delle mani, l’adorazione per quanto si legge negli occhi dell’altro, il pensiero di quanto sarà fantastico scoprire poco per volta un mondo nuovo e ignoto. Ed Emma abbandona tutto quanto possiede per l’incerto palpito di una speranza futura… Voliamo tra le fantasticherie della donna, le attese, gli stati d’animo, le eccitazioni, che fanno sperare momenti eccezionali insieme. I ricordi sono appesantiti dalla consapevolezza che sta spendendo gli ultimi giorni con gli affetti maggiori che la vita le ha dato, dopo un padre presto perduto e una madre desiderosa di dieci figli ma fermatasi a lei per impossibilità dopo l’unico parto. Come conseguenza, ostile in un gelo perenne: incolpevole non l’ha perdonata, mai abbracciata, né è stata rifugio per gli anni della crescita. Ma i dolori si affievoliscono, svaniscono quasi, di fronte al fantastico che fa volteggiare in alto la donna, avvitandola senza scampo. Sorge ora lo spinoso problema di comunicare la decisione. Inizia col figlio maschio, Louis. Incredulo all’inizio, colpevolizza la madre, le dice di andar via subito, si chiude, poi la coscienza del dramma inatteso fa scorrere le lacrime. Manon, la prima figlia, afferma che la sua vita è finita, chiede cosa hanno fatto di male tutti loro, che non può lasciare il padre dopo la grave malattia (una leucemia), fa mille promesse, si augura di morire, ignorava ch’era infelice. La mamma risponde che non lo è stata, ma domani avrà molta più gioia, che ha subìto tanto, e finiscono abbracciate, ancora lacrime. Olivier cade dalle nuvole, non capisce, spacca oggetti, si scherma dietro i figli, poi inizia a pendolare tra aggressività e disperazione, e infine ancora pianto. Se va via, la porta si chiuderà alle sue spalle e per sempre. Emma gli rinfaccia il tradimento con la giovane e bella segretaria, che lui nega, e il non guardarla più come nei primi tempi. Solo con la piccola Léa, 12nne, riesce a spartire l’affetto incondizionato: chiede come farà a crescere senza di lei e domanda se potrà andare a viverle insieme. Il dolore diviene smisurato. Questo soffrire immenso è contenuto solo da brevissime parentesi con lui, dalla decisione di partire insieme, di iniziare entusiasti una nuova vita, del tutto diversa, una resurrezione creduta a portata di mano che farà dimenticare i tormenti della tortura provata. Sono rimasta sola con le nostre prime parole, al tempo stesso banali e spettacolari, e anche con tutte le altre – quelle fra le righe, che tradivano già i nostri appetiti, le nostre indecenze e opacità. (…) Danzavo sull’orlo dell’abisso. (…) La mia caduta doveva essere scritta fin dal primo giorno, prima di Olivier, prima dei bambini. (…) Provavo vergogna, e al tempo stesso mi consumavo. L’ultima volta che ci siamo visti, ci siamo baciati per la prima volta. Quando tutto è cristallizzato nel primo bacio e già il futuro appare deciso con la distruzione dei vincoli passati, si avventa l’agguato fatale del destino. L’amore, pronto a spiccare il volo, si schianta come un aereo al decollo che va in pezzi distruggendo ogni cosa vivente. Le ferite inferte in tal modo hanno il destino di non rimarginarsi mai, si campasse anche mill’anni. La donna attende un uomo che non arriverà, precipitando dalla vetta della montagna nell’abisso. Non resta che munirsi di un filo tenace per illudersi di rammendare alla men peggio una vita sbracata dalla tempesta incollerita al modo peggiore. Si sente estranea in un corpo svuotato dall’inimmaginabile violenza morale. Ne resta tramortita e paralizzata. Intuiti i suoi drammi, sarà Mimi, ex Madame tenutaria di un bordello altolocato e ora ridotta a dirigere un campeggio, dove Emma giunge appena in grado di viaggiare, a chiederle:

 “Per quanto tempo vuole restare lei e la sua tristezza?”

“Qualche giorno.”

Ci sono rimasta quasi un anno.                                             E una volta amiche, le dirà:

Lascia andare le cose, tesoro. A volte è una gioia non trattenerle.

Libera quella parola, Emma, lasciala volare via.

Vi rimarrà anche più a lungo. Quando si muoverà, andrà a vivere dalla grande amica Sophie, che l’ha cercata e rincuorata già nel camping. Visiterà in veste diversa la vecchia casa, trovando il rifiuto dei figli maggiori per l’abbandono. Pugnalata a morte ma sopravvissuta, deve riadattarsi a vivere senza danza: riprende, barcollante, un percorso ben diverso da quello sognato. La vita, poi, non si stanca di proporre pagine bianche da scrivere, e al destinatario non resta che riempirle, in un modo o nell’altro, come detta il suo spirito. Poi un giorno Léa telefona in lacrime perché il padre è di nuovo malato. Nel cervello dismesso di Emma squilla l’allarme, sa che la malattia torna sempre forte e affamata. Quella Léa che, al ritorno a casa del padre dopo l’ospedale la prima volta, gli aveva disegnato con i pennarelli sul cranio pelato i capelli perduti… Si presenterà di nuovo alla porta di casa ma sarà la madre – sfinita dalla vicenda – a respingerla, vomitandole addosso le colpe familiari di cui l’accusa: “Sei un mostro, Emmanuelle.” Ancora esilio e, quando alfine le porte si schiuderanno – ritrovando Louis, Léa, e Olivier molto malridotto –, questi la inviterà a sedergli accanto e chiederà, accorato e nostalgico: “Che ci è successo?”. Peggiorando la situazione Olivier rifiuterà ulteriori cure, e allora decidono un ultimo viaggio insieme nella terra dei vini, nel sud della Francia, promessa di sole e vita. Caroline, la ventenne segretaria, ha continuato ad addolcire i momenti del marito. Emma, dopo uno schiaffo liberatorio nell’ufficio che la scaraventa a terra facendola sanguinare, si scopre disposta a un ruolo diverso di compagna, per nulla definito. L’affetto della giovane si rivelerà poi sincero, conquistando in sua vece la casa e la famiglia. Emma comunque diverrà il jolly per marito e figli, fondamentale nella situazione e accettato dall’amante. Vivrà il riscatto nel periodo finale della vacanza, denso di feste con amici e riunioni familiari rappacificate. Una chicca: il libro è arricchito da una corposa descrizione di vini, in maggioranza francesi ovvio, e può essere interessante per un cultore che voglia approfondirsi. Minore ma non trascurabile merito del libro. Poi un travaso si compie – inatteso, inspiegabile – la morte trasfonde nella vita e questa la recepisce mutandosi in ferma volontà. L’amore esce trionfante nella lotta davvero impari anche per un Signore delle Vittorie quale è stato, è, e sempre sarà. Difficile allora intuire il domani quando questo si ammanta ancor più di nebbie contro vanità accampate su vacue presunzioni… Grégoire Delacourt (Francia, 1960), scrittore e regista, esibisce un tocco narrativo a tratti sconfinante nella poesia. Con empatia verso la protagonista, oggetto di squassanti tempeste emotive, convince alla simpatia. Se non di assoluzione, ci si attesta per un giudizio di colpa ridotta verso una donna che trasporta dall’infanzia traumi non lievi. Più colpevole la tremenda madre fuori ruolo – a compensarla è mancato il tempo del padre! – nel causare nella figlia scompensi e mancanze che ne fanno un’adulta alla continua ricerca di se stessa, appuntamento ingannevole anche per spietata volontà del destino. Alla fine, di Emma non resta un’immagine di donna disamorata, volubile e senza principi morali, ma solo di una vittima del sottile male di vivere che si fa gioco anche dei migliori tentativi di fuggire in qualche modo dai suoi incessanti soprusi.

*L.C. Na Castel S. Elmo

                                                                                          

 

 

 

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