LA MALEDIZIONE DI DANTE

Carmelo Fucarino

Povero Dante, così da secoli chiamato, con il semplice nome come il Francesco (papa), come se fosse un fratello e un amico del cuore! Pur anche un collega. Che mala sorte ti è capitata! Già dopo qualche decennio tutti a collazionare codici amanuensi, per ricostruire il suo vero manoscritto autografo perduto. Anche il figlio suo e di  Gemma Donati, Iacopo di Durante degli Alighieri (Firenze, tra il 1297-1300, forse a Firenze 1348) elaborò delle Chiose all’Inferno di Dante e un Capitolo in terza rima come riassunto del contenuto. E quell’infatuato fanatico di Boccaccio, il vero creatore della prosa italiana, che si spinse a definire “divina” la sua Comedia, come egli diceva scritta in volgare fiorentino. Già qualche tempo dopo fu la critica feroce a definirlo poeta “oscuro e barbaro”, fino alle stroncature del Sei e Settecento con Campanella, ma anche con Alfieri, Vico e Voltaire. In tutte le numerose querelle sulla “questione della lingua” da Rinascimento fino a Manzoni è stato sempre tirato in ballo, per quella sua proposta iniziale di una definizione di lingua volgare, questione ripresa già fra i latini, in anni in cui in Italia non si pensava lontanamente di usare la parlata del volgo. La comunicazione culturale nelle sue varie forme, dalla narrativa alla poesia alla scienza usava il sermo latinus, punto fermo di deviazione storica, quello di Cicerone. Dante e Boccaccio rompono questa dittatura, molto dopo Galilei con Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo. Niccolò Copernico scriverà in latino (De Revolutionibus Orbium Caelestium, 1543) come pure Keplero (Epitome astronomiae Copernicanae, Mysterium Cosmographicum, 1618-21). Che poi anche lui per spiegare cosa fossa l’eloquio volgare si rivolse ai suoi dotti interlocutori con una De vulgari eloquentia (1303-05) in latino. Secoli di dibattiti tra poeti e linguisti e montagne di commenti. E di parafrasi. Mio padre ne aveva una bella edizione in tre volumi. Fino ad oggi in questo anno eccezionale delle infinite celebrazioni, in ogni paesetto di Italia e in tutto il mondo, perché coincidono il Dantedì, istituito per legge, e il Dante 700. Purtroppo per il Dante paradigma della storia di Italia non è un’epoca adatta. Dopo le stroncature dei secoli passati fino al momento della cosiddetta Unificazione di Italia che il 17 marzo ha compiuto 160 anni, tanti, la gloria di Dante scandì la storia delle ideologie e dei sistemi politici, profeta cristiano e come tale simbolo sabaudo di profeta dell’Unità, attraverso la dittatura fascista fino all’epoca democristiana. In effetti egli aveva visto nel De monarchia un’Italia mai esistita in quanto tale, nella repubblica e nell’Impero romano, attraverso le successive forze centrifughe dagli imperi bizantini fino all’atomismo medioevale e rinascimentale. L’Italia di Dante era il “giardino dell’Impero”, quello del Sacro Romano Impero del suo idolo Arrigo VII al quale rivolge la celebre Epistola VII. Carlo Dionisotti ha sviluppato in un saggio che illuminò allora la mia esperienza scolastica (Varia fortuna di Dante, 1966), questa lunga parabola, la traiettoria che a partire dal Settecento fino alla nascita della Repubblica italiana, la manipolazione e l’utilizzazione strumentale del poeta in funzione delle occorrenze storico-politiche dei tempi. Così come per Manzoni tra cattolicesimo e giansenismo coniugale, con la lacrimosa storia di un matrimonio impedito, della punizione del cattivo e dell’edificazione del Santo che fa convertire il peggiore dei peccatori, Dante si assunse a simbolo politico del conservatorismo cristiano dei tre mondi, gli Inferi, certamente della tradizione antica che comincia nel IX secolo a.C. con l’evocazione dei morti per due volte in soccorso di Odisseo, per trovare la via del suo nostalgico viaggio, ma anche di un inventato Purgatorio e oggi dismesso anche dalla Chiesa e di un Paradiso che richiamava altri Eden classici, greci ed orientali. Alla fine il suo idolo che saccheggiò fu l’Ovidio delle Metamorfosi e degli Amores. E qui stette il torto subito, come per Manzoni noto solo per il r omanzo edulcorante e salvifico, la trasformazione in padre della lingua e della letteratura e pertanto imposto nelle scuole, tre cantiche per tre anni. Il mio incontro con Manzoni per due anni del Ginnasio fu essere stato rimandato agli esami di ammissione al liceo sul tema della storia della rivolta fatta da Renzo all’osteria della Luna piena, l’unica inflittami da un caro prof. che mi fece strabiliare al liceo col Dante a quiz, in quale cerchio si trova il tale e perché e quale contrappasso. Dico caro, perché poi mi fece anche sognare con una lezione su Imagination, il cavallo di battaglia del lercarese Frank Sinatra. Prigioniero americano nel West aveva imparato tutta la Commedia a memoria. La scuola, dico, ha fatto di Dante il torturatore dei giovani, come d’altronde per tanti altri geni della letteratura e del pensiero filosofico, ma anche con materie come la matematica e la fisica e le scienze. Tutto serviva per l’interrogatorio, per il voto, per il pezzo di carta. Allora. Tuonava l’accusa di nozionismo, anche se alla base della rielaborazione non può che esserci il dato, la spregiata ‘nozione’. Oggi la scuola ha perduto anche questo, svuotata di contenuti, serva di burocrati mercenari, che l’hanno privata anche di quei detestati contenuti. Perciò nella maestosa sala del Quirinale, davanti al Presidente della Repubblica e un pubblico selezionato, Dante è stato spiegato con cipigli, sorrisi e astute pause e clausole da un attore, Roberto Benigni, grande comico anche del tragico mafioso, un Geppetto unico e tanto altro, un grande istrione, ma non adatto al ruolo al quale si è sperimentato e per il quale lo hanno ingaggiato dopo una anteriore esperienza di acculturazione popolare. Passi una sua lettura nazional-popolare di una Francesca dalla voce truce ed imperiosa, ma la spiegazione di un canto del Paradiso è troppo. Troppo da sopportare! Dante è altro, non meritava in due date così importanti simile prova. Con gli abbracci non dati al Presidente e quella uscita balorda: «La politica non gli ha portato bene: lo hanno esiliato ingiustamente da Firenze e condannato, quindi è passato tra i ghibellini. Ma alla fine ha detto basta con la politica e ha fatto ‘parte per se stesso’. Ha fondato il partito di Dante, il Pd, non ha vinto mai. Si sono scissi, c’erano troppe correnti: questo Pd sono 700 anni che non trova pace». Non si può degradare nel canto infimo popolare. Per tutto il corso di studi medi e superiori, ogni anno, ho pagato il pedaggio obbligatorio della tessera della “Società Dante Alighieri”, che ha oggi filiali in Italia e nel mondo ed ha attivato una serie di manifestazioni. Non sarebbe stato più onorevole che il Presidente Mattarella fosse deliziato con più alte, esperte e dotte riflessioni? Perché la TV statale formatrice è diventata infimo strumento di share, alla pari delle TV commerciali? Perché sono costretto a pagare un canone con l’energia elettrica? Ancora in una mattina della RAI mi son trovato ad ascoltare su Dante due esimi giornalisti, di stanza in TV, Corrado Augias, titolare della rubrica delle lettere su La repubblica e Aldo Cazzullo, identico titolare sul Corriere della sera. Per non privilegiare nessuna delle colonne della disinformazione italiana. Capisco che ormai la comunicazione televisiva è affidata a persone, in maggioranza donne, che non conoscono la lingua italiana, dei suoni (fonetica) e dei significati (semantica), ma si ritiene impossibile fare un discorso da addetti ai lavori in una rete pubblica, specialmente in una celebrazione così pompata e propagandata? Ma anche così eccelsa come si ritiene. Si parlava di Beatrice. Quando incontrata? A nove anni. Amore inossidabile di tutta una vita, fino al Paradiso. Non si sapeva nulla del canone poetico del Dolce stil novo, e della moda poetica della “donna angelicata”, semplice stilema poetico di un bel gruppo di poeti detti stilnovisti dell’’amor cortese’, dal codificatore bolognese Guinizzelli (Al cor gentil rempaira sempre amore) all’amico di Dante Guido Cavalcanti a Lapo Gianni fino al suo Tanto gentile e tanto onesta pare. Padre della lingua italiana, amante della Sicilia e del fumoso Tifeo eschileo sotto il vulcano e dei poeti della Scuola poetica siciliana, alla quale proprio Dante dà la priorità. Così si raccontava tra giornalisti. Come se non fosse arcinoto che i poeti che scrivevano in volgare siculo, come si mostra Ciullo d’Alcamo, i figli di Federico II Manfredi ed Enzo, ma anche i celebri Giacomo Lentini e Pier delle Vigne, Rinaldo d’Aquino e Giacomino Pugliese, provenienti da tutta Italia, fossero stati tradotti successivamente in volgare fiorentino e questo ci resta con gli strafalcioni di rime impossibili (i nostri amuri, ma soprattutto poviru). Ben venga perciò e meritata l’accusa di un tale Vichingo, di cui si omette il nome, vero polemista di pessima lega e fondatore del Frankfurter Rundschau, che per uno spicciolo di notorietà denigra Dante “arrivista e plagiatore ed egotistico” ed altre scemenze anacronistiche. Di ben altra fama si gloria Frankfurt am Main in Assia, avere dato la nascita all’unico divino poeta tedesco, innamorato della Sicilia («l’Italia senza la Sicilia non lascia alcuna immagine spirituale: Qui è la chiave di tutto»), Johann Wolfgang von Goethe dell’amore di Faust e Margherita (l’appassionato Bacio, nel marmo di Antonio Tantardini del 1861 a Milano). Secondo l’articolista, fonte degli Inferi sarebbe stato un ipotetico ignoto arabo, come se il suo “duca e maestro” Virgilio non gliene avesse dato ben chiare nuove nel suo VI canto dell’Eneide con la catabasi di Enea nell’antro della Sibilla cumana. Mi sovviene lo scoop e la beffa tragica di Il consiglio d’Egitto di Leonardo Sciascia. Il profondo esperto sassone fa l’eccezionale scoperta che Shakespeare era più moderno di Dante. Dalle rime pietrose del 1300 si era passati al barocchismo di una Giulietta tra il 1594 e il 1596, che oggi nessuno imiterebbe nel parlar di amore. E noi godiamo della traduzione: si immaginino gli Inglesi le cui orecchie sono frastornate da un linguaggio incomprensibile morto e sepolto. E addirittura in teatro. In tema sarebbe come dire che la lingua tedesca è più moderna perché inventata e amalgamata sulle centinaia di dialetti e stati da Martin Luther con la sua solitaria traduzione della Bibbia nel 1534 durante il suo maestoso rifugio nella fortezza di Wartburg, presso Eisenach, centro dei trovatori Minnesänger, oggi un rudere per turisti. Questa Bibbia fu per i Tedeschi qualche secolo dopo la Commedia di Dante, che pure essa per il prestigio religioso dei Luterani si impose nella successiva unificazione (Deutsche Einigung) della Confederazione tedesca del 1867 e nell’Impero riunito del 1871.

 

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