IN RICORDO DI PIERO CERAMI

Carmelo Fucarino

Per noi di quelle classi elementari postbelliche resta sempre nel cuore Piero. Abbiamo vissuto per otto anni assieme, più ore di quante ne abbiamo passato assieme alla nostra famiglia. I giorni della scuola elementare a cominciare dalle aste, poi a seguire le vocali e le consonanti, segnate dalle iniziali delle immagini che adornavano i muri, quello gnomo curioso o la fata che son rimasti nell’immaginario della curiosità infantile per giungere al dettato, al tema e ai fantasiosi problemi su uova e litri di olio. E poi gli esami di ammissione alla Scuola Media, allora elitaria e con sbarramento, pur tuttavia culturale, il duplicato della licenza elementare per distinguere l’altro indirizzo, quello di avviamento professionale. E abbiamo proseguito, in numero più ristretto, ma con maggiore intesa e consapevolezza in una classe mista, rivoluzionaria per i tempi. E con Piero, la frequenza si duplicò, perché oltre all’orario mattutino ci si ritrovò, quasi sempre a casa sua sotto l’occhio vigile e affettuoso della mamma e il girovagare del fratello Antonio, oggi qualificato ingegnere  – fu sua l’iniziazione al Corriere dei piccoli, con sor Pampurio o «Qui comincia la sventura del Signor Bonaventura» e poi con Paperino e Topolino. Altro giro e altra corsa di una formazione che oggi sembrerebbe a raccontarla agli odierni studenti un insensato esercizio di noiosa ripetizione. Furono l’analisi logica e grammaticale, furono le parafrasi e i riassunti dei poemi classici, esercizi di pazienza e di stile che occuparono interi pomeriggi e talvolta fino a tarda ora. Fu allora quell’analisi del periodo, furono quei classici ad aprirci nuovi orizzonti in quel paese sulla collina, la Prizzi della neve e del gelo invernale, quando si andava in quella stanzetta della scuola media, con le scarpe ancora intrise di neve, per quattro ore senza alcun riscaldamento. E incontrammo Ulisse ed Enea e con loro viaggiammo per il Mediterraneo, mentre scoprimmo l’Italia con le cartine da noi disegnate. E prodigio di quella scuola media, imparammo le note musicali e il suo rigo e inventammo spartiti in chiave di sol e conoscemmo la storia dell’opera, autori e composizioni. Le immagini che noi conservammo con i calzoncini corti fino all’inguine e i ciuffetti sbarazzini. Sì, si studiava allora rosa, rosae, e si traduceva Fedro e Cesare, sempre con analisi logica. Anche l’oscura lingua del Monti di “Cantami, o Diva, del Pelíde Achille”, e il Pindemonte e l’Annibal Caro. Da lì nacque il nostro amore per le lingue morte, per noi prova di memoria e scoperta di altra lingua precisa e senza dubbi interpretativi, in confronto con l’impreciso inglese, elementare nelle strutture morfologiche e sintattiche. Da quell’esame di licenza media e dalla mia frequenza al liceo classico Baccelli di Corleone ci siamo perduti. Come se non ci fossimo mai conosciuti. Un lungo buio dopo avere vissuto assieme per otto ore al giorno per otto anni. L’interrogativo della vita che spiazza e alza barriere di buio e di silenzio, Avevamo creato noi stessi assieme, ci eravamo scambiati esperienze e maturazione, avevamo scoperto la vita. Di tutto rimase la sua scelta del diritto romano, la mia di insegnante di latino e greco. Un giorno andai a trovarlo. La brama di rivederlo e riscoprire la nostra vita. Lui,  grassottello nei nostri anni delle scoperte, era ora più esile ed alto. Era un altro, anche la voce era diversa, non più quel Pierino che era rimasto fisso nella memoria in quella stanza, dopo quella ripida scala esterna, all’apice dell’erta salita. Abbiamo parlato delle nostre carriere, dello stato attuale. Se  dovessi ricostruire quel colloquio non troverei un passaggio, un segno degno di nota. Eravamo due persone che si incontravano per la prima volta. La riscoperta avvenne al cinquantesimo anno. L’idea di un solerte e socievole compagno, il Matteo Vallone della socialità che volle riunire tutti i compagni di quella classe elementare. E fu la riappropriazione di una parte della nostra vita, tante professioni, tanti nuovi luoghi, nell’affabulazione che ci rendeva compagni e fratelli. Nella chiesetta francescana della Madonna del Carmine dell’ex convento, l’antica Peritium, ove si officiava per i soldati chiamati alla leva, ci riunì il grande sociologo e politico padre Ennio Pintacuda per le Messa di mneme e fraternità. Eravamo di nuovo assieme, dal contadino all’artigiano al prof di diritto romano dell’Università di Palermo, viventi in paese, molti a Palermo, altri a Milano, Genova, Torino, Padova. E da allora non ci lasciammo più, almeno nelle grandi celebrazioni annuali e quando il desiderio ci spronava. Oppure con Piero quando la comune esperienza del latino ci portava a confrontarci su testi e ancora in analisi semantiche su passi di dubbia interpretazione. Tanti hanno celebrato sulla stampa le doti dell’esperto maestro di diritto, il suo lungo, attento, serio magistero che ha rinverdito lo studio di una istituzione che ancora regge le strutture portanti del diritto occidentale ed ha formato tante generazioni con le radici della giustizia delle nostre società divise dall’Atlantico. Così pure è stata rilevata la sua presenza attiva in numerose istituzioni di diritto romano. Comunque si voglia intendere, e forse qualcuno dei moderni legulei liquiderà il diritto romano come un rompiscatole di inutili e superflue anticaglie. E qualcuno ricorderà la rigidità del maestro che non faceva sconti, che pretendeva che si conoscessero in originale quei testi di portata eccezionale. Forse qualcuno non comprendeva lo stupore davanti a quella sintesi perfetta, alla sonorità della lingua assoluta dalla quale noi oggi ripetiamo sintagmi e semantemi. E ancor più ritroviamo la scientificità del diritto in una società in cui esso può essere soltanto semplice consuetudine codificata come nella boriosa Albione o in Stati in cui per scrivere un decreto di un consiglio di ministri si distribuiscono tanti “visto” per ventine di pagine, citando con numeri e date tutta la legislazione e si elencano ambiti e cavilli per un’altra quarantina di pagine. Eppure questo è il diritto che poi si pratica in concreto, le istituzioni di diritto privato, civile o penale, riformato attraverso secolari modifiche e interpretazioni a partire dall’inossidabile codice Rocco. Il diritto di Piero è per molti un inutile rompicapo, una rottura di palle di latinorum che per i moltissimi laureati in giurisprudenza non sarà utile per la carriera di avvocato, per pochissimi, in genere per la carriera arrembante di burocrati. A me sorprende la grande ammirazione dei fondatori degli USA e il loro entusiasmo per la scoperta di quel diritto, a differenza dei loro antenati anglosassoni. Avrò come scusante, per taluno la colpa, di avere fatto delle lingue morte e di quella cultura che inizia da Omero la mia professione di fede, di avere formato generazioni di giovani con il miracolo della tradizione latina e greca. Ma ribadisco con somma fede che noi oggi siamo civiltà occidentale come sintesi e riflessione e arricchimento di quella cultura, non solo nel campo strettamente culturale e letterario, ma anche più strettamente scientifico. Consiglio oggi di leggere sulla modernità e gli studi di medicina greca qualche saggio delle centinaia di opere di Galeno, e attraverso lui di Ippocrate, quell’arte del medico, lo iatròs citato da Omero, come demioergós,pubblico operatore”, per quella medicina che era anatomia, patologia, chirurgia, fisiologia, igiene e psicologia, Se mi si chiede cosa è una tal malattia, il vocabolo greco mi illumina su cosa si vuol intendere. Piero ha curato l’evoluzione delle dottrine giuridiche e ha creduto in quei periodi luminosi del latino a partire dalle portentose dodici tavole – delle quali discutevamo -fino ai codici di Giustiniano e Teodosio e questi studi ha proseguito durante il periodo della sua Presidenza della facoltà di Giurisprudenza di Palermo, ma anche dopo il suo obbligatorio pensionamento con la sua rivista e le sue ricerche, con la sua professione per sempre di ricercatore di quelle istituzioni che solo le invasioni barbariche di Longobardi obnubilarono, salvati da Unni e Visigoti romanizzati e riscoperti dal nostro Medioevo e dal Rinascimento che non fu solo arte e pittura di scuole, ma ci riportò alle radici del nostro essere cittadini di uno Stato organizzato con diritti e doveri codificati. Della versatilità e modernità della ricerca del prof Pietro Cerami voglio riportare a chiusura ed epitaffio soltanto qualche titolo esemplificativo: Profili processualistici dell’esperienza giuridica europea. Dall’esperienza romana all’esperienza moderna; Roma e il diritto. Percorsi costituzionali, produzione normativa, assetti, memorie e tradizione del pensiero fondante dell’esperienza giuridica occidentale; Storicità del diritto. Strutture costituzionali, fonti, codici. Prospettive romane e moderne; Profilo storico-giurisprudenziale del diritto pubblico romano. Questo è stato il nostro progetto “umanistico” ciceroniano non di modernizzare e attualizzare, in lampante anacronismo, come va di moda nelle cosiddette storytelling visive, in teatro e nel cinema e pure nelle analisi storico-letterarie, ma di rintracciare nella moderna quotidiana mitologia dell’essere vivente i semi esistenziali dei suoi antenati e progenitori che hanno prodotto questo grumo di contraddizioni, nella sua sicumera scientista di sapere tutto dell’universo e del microcosmo somatico e nel ritrovarsi ancora miscuglio di sedimentazioni mitopoietiche che in lui sopravvivono dall’uomo delle caverne e che vive ancora in ogni suo atto e pensiero, senza che più ne comprenda i termini archetipici e i significati.

 

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