STORIA DI UN OBLIO

    Romanzo di Laurent Mauvignier

Luigi Alviggi

Laurent Mauvignier, romanziere francese nato a Tours nel 1967, nei suoi scritti focalizza un potente sguardo critico sul mondo d’oggi, rimarcandone taluni degli aspetti sociali più alienati e alienanti. “Storia di un oblio” è una esplosiva filippica strutturata in un unico periodo lungo 49 pagine che tratta uno degli aspetti più orripilanti dei cosiddetti paesi civilizzati – e non solo, ovvio – a sua volta specchio minuto di uno Stato sociale che troppo spesso si veste di  debordante peso nei confronti dei deboli, mentre politici, lobbies, alti burocrati, potentati, loro familiari amanti e affiliati, la fanno da padrone, centomila volte contraddicendo l’assunto teorico che la legge dovrebbe essere uguale per tutti in ogni campo. Il bersaglio rappresentato dal capro espiatorio è il postulato base del protagonista di molte pagine anche di un altro eminente scrittore francese: Daniel Pennac. Tale capro ben assolve quella che oggi sembra essere la via d’approdo più comune per le cento frustrazioni dell’uomo contemporaneo non baciato dalla fortuna di essere in qualche modo famoso. E questo quasi sempre per essersi saputo infilare nel ”giro” giusto e mai per meriti propri! Sfibrato dai problemi di lavoro, vessato dall’asfissiante burocrazia, martoriato dalle meschinerie di chi gli vive accanto, sconfitto da affetti negati o discontinui, e via dicendo, l’uomo dabbene comune vive la sua livida vita…  Succede purtroppo nella realtà! Nel periodo delle feste di fine anno 2009, il 25nne Michael Blaise entra in un grande supermercato di Lione, per curiosare in giro e stare un po’ in mezzo alla gente. Guarda, osserva, prende qualche prodotto dagli scaffali, attratto dalla confezione o per capire l’utilizzo di un articolo sconosciuto. Non ha fretta, niente e nessuno lo attendono. Meta finale è il giro nel reparto animali viventi in fondo al supermercato: la sua passione! Magari potrà accarezzare qualche cucciolo che ispira tenerezza e assaporare istanti di benessere interno rari per lui. Con queste premesse, può essere l’uomo più felice del mondo oppure il più infelice: bisognerebbe entrare nel suo animo o conoscerlo a fondo per poter dire a quale delle categorie senta di appartenere. Ma il vile destino è in agguato. Ha sete e soprappensiero, con l’attenzione distolta dalle mille cose che ruotano intorno, prende una lattina di birra, piccola, da un terzo di litro. Il dito afferra l’anello metallico e lo strappa, la beve a piccoli sorsi, tranquillo, continuando a girare lungo le corsie affollate di gente in cerca di nuove cose. Una minuscola nota di beatitudine si aggiunge al suo forzato girovagare senza tempo. Appena pochi istanti e ben quattro vigilanti – cioè 4 stipendi mensili, con benefici aggiuntivi! -, sguinzagliati dalle telecamere di sorveglianza, si avvicinano, circondandolo. Tutto questo è cronaca vera, riportata dalla stampa locale e, in seguito, dai mezzi d’informazione nazionali ed esteri: “Non ha tentato di negare quando li ha visti venire verso di lui e loro si sono, non direi avventati su di lui perché erano lenti e cal­mi, né gli sono piombati addosso come avreb­bero fatto, poniamo, degli uccelli da preda, no, no, anzi si sono fermati davanti a lui ed erano molto silenziosi, erano tutti piuttosto lenti e freddi quando l’hanno circondato e lui non ha detto una parola per protestare o negare poiché, sì, aveva bevuto una lattina e avrebbe po­tuto ringraziarli di avergliela lasciata finire, non ha detto una parola e negli occhi ha lasciato spazio alla paura ma nient’altro, capisci, aveva solo voglia di una birra, sai cosa significa aver voglia di una birra, voleva sciacquarsi la gola e levare quel gusto di polvere che non se ne andava, va a sapere, un giorno come oggi, un po­meriggio in cui la luce era bianca come la lama di un coltello che luccica sotto il neon in una cucina” L’uomo solo si ritrova in mezzo a quattro violenti che si sono scolati il ben dell’intelletto in maniera molto più canagliesca del bersi una lattina di birra. Viene condotto lontano, non nel locale della sicurezza dove possono esserci orecchie e occhi estranei, ma in fondo al magazzino tra cataste di merci impacchettate e impilate. Lo si vuol porre lontano dalla ragione che, facendo capolino in qualche estraneo, potrebbe squillare come un campanello d’allarme e far rinsavire i pazzi delinquenti, allontanando dalla vittima l’amaro calice del sacrificio il cui gusto, a livello inconscio, già serpeggia al fondo di coscienze depravate. Abbiamo a che fare – e quanto spesso purtroppo capita! – con autentici farabutti camuffati da una divisa cadutagli addosso per il colossale reato di chi l’ha concessa! Il chiasso del supermercato è ora solo un remoto brusio. Il pensiero del credente associa il cammino del Cristo verso il Golgota sotto il peso della croce e le violenze di quanti gli sono attorno. Secoli, millenni, sono trascorsi, ma il rovescio della medaglia-uomo resta inciso dagli istinti più perversi. La forza del branco, nell’illusione costante d’impunità, rinsalda le debolezze del singolo e libera l’esplosione di impulsi bestiali che, nell’istante stesso in cui vengono sfogati, fanno credere all’autore di essere superiore alla vittima, di poter elevarsi a giudice del proprio simile e, condannandolo, di essere autorizzato a imboccare la perversa via di assoluzione personale. Il caso non è recente ma ne parlo perché su esso c’è il libro di questo scrittore francese. Oggi dovremmo citare George Floyd, 46nne afroamericano ucciso a Minneapolis un anno fa dall’agente derek chauvin che ha tenuto il ginocchio sul suo collo per nove interminabili minuti soffocandolo, nonostante lui dicesse che non riusciva a respirare. Floyd fu fermato da 4 agenti per la chiamata di un negoziante che aveva pagato con un biglietto falso da 20 dollari. Questo caso ha infiammato il mondo partendo dalle gigantesche proteste del movimento BLACK LIVES MATTER nelle principali città USA. Di recente la “nuova” America, miracolata da Biden, ha ben accolto il verdetto di una giuria del Tribunale di Minneapolis che ha ritenuto unanime il poliziotto colpevole di tutti e tre i reati d’omicidio imputatigli. Si è ora in attesa a breve della sentenza definitiva, scritta dal giudice. Negli USA centinaia di persone sono uccise ogni anno dalla polizia (!?) e ben pochi i poliziotti condannati. Via “innocua”, dunque, dell’identico istinto è il razzismo, piaga in maligna ed estesa diffusione antica e odierna. Mutano scenari, società, individui, ma il dramma non devia di un millimetro dall’aberrante obiettivo. Fingono di non sapere, i sequestratori, avendolo ben represso al fondo della coscienza, che il pensiero sovrano che percorre la mente del bersaglio davanti a loro, mentre i colpi portati a segno si susseguono ai colpi, il sangue schizza via, le ossa si frantumano, gli organi interni si spappolano, il pensiero – dico – unico che invade la mente della vittima è: “ecco, adesso smettono. È sicuro, questo è l’ultimo, non andranno più avanti. Vedrai, adesso si fermano, oh Dio! no…, non più, non adesso…”. “Ma non contarci troppo, perché nessuno conta davvero, non contarci, su nessuno né per nessuno, perché alla fine tut­to dorme nell’oblio e non è neanche poi un ma­le, dimenticare, quando so che i suoi ultimi istanti sono stati un mondo ben triste da contemplare, i suoi gesti e le sue lacrime alla fine quando le urla non servivano più a niente e i singhiozzi alla fine, la rassegnazione, le mani che si aggrappavano all’aria vuota e agli aliti troppo forti, il sudore e l’odore speziato del deodorante, le dita davanti agli occhi per cercare di non vedere la morte che arrivava – no, non la morte, solo proteggere gli occhi dai cal­ci e dagli insulti, poiché alla fine l’unico mon­do possibile era l’eco del frastuono del suo cor­po e non le parole che il procuratore e la polizia hanno detto e ripetuto e che si sono sentite in giro e sui giornali, gettate in piazza come per far spuntare dei fiori (come se dentro ci fosse tutta la verità del mondo!)” Si fermeranno solo quando calerà il gelido silenzio della morte a ibernare pensieri e azioni. Solo allora i carnefici sostano il massacro col quale, uccidendo il fratello, hanno ucciso il proprio essere più umano, quello che avrebbe potuto fare la differenza tra la belva che massacra, giustificata da fame insopprimibile, e l’uomo civilizzato, caratteristica questa di una specie ma non certo di tutti i suoi appartenenti. E, nell’immediato, i quattro artefici di questo delitto riescono a sentirsi soddisfatti. Nessuno potrà denunciarli, ciò che è successo non si saprà, è stato soltanto un’interruzione della ragione da giudicare quasi indispensabile per continuare imperturbati – NO! per sentirsi fortificati! – il cammino quotidiano, zeppo di umiliazioni e insuccessi. Le bestie scatenate restano illuse di aver distrutto, insieme con la vita umana capitata per caso tra le mani, tutto il male incontrato nella loro vita precedente. Nelle menti malate si è configurata una sorta di riscatto di cui la sorte era debitrice per riparare in qualche modo i torti sofferti. Poi – troppo tardi – inizierà a far capolino la paura, la vigliaccheria di rinfacciarsi l’un l’altro la responsabilità di quanto è accaduto, inizia il palleggiamento delle intenzioni e degli scopi, la fuga individuale dal misfatto. Adesso quel morto non appartiene a nessuno, nessuno lo vuole, anche la coscienza di chi lo ha causato lo rifiuta addossandone all’altro ogni colpa. E lo ripeteranno alle mogli, ai familiari, agli amici, agli estranei, cento, mille volte: non c’era volontà di fargli male, solo dargli una piccola lezione perché andava istruito. Si sentono quasi meritori per aver tentato di riportare sulla retta via chi l’aveva smarrita. La vigliaccheria impesta menti e corpi e cerca di diffondersi agli altri come un terribile morbo. Da uno di questi mostri nasce – ed è solo un altro esempio tra mille – il norvegese Anders Breivik (1979) che nel luglio 2011 ha sterminato 77 persone tra Oslo e un campo giovani della vicina isola di Utoya, e di tanti altri dello stesso orrido stampo. Si potrebbero riempire libri, capitati nei paesi e nei luoghi più disparati. Pescando nella memoria nazionale: lo scempio della Diaz dove per fortuna non ci scappò il morto; Stefano Cucchi, 31 anni, massacrato pochi mesi prima di Blaise: e quanti anni di attesa per la “giustizia”!; Giuseppe Uva, 51 anni, morto nel 2008 dopo una notte in caserma; Federico Aldovrandi, 18 anni, ucciso nel 2005. Solo alcune “disgrazie” pescate dalla cronaca. È impossibile soffocare il rifiuto e la vergogna che questi casi provocano. Purtroppo l’oblio è facile, dovuto alle decine di violenze che ci piovono addosso ogni giorno e ci rendono sempre più insensibili. È una spugna bagnata che passa sulla lavagna: niente rimane e sulla superficie riverginata la mente è pronta a scrivere novità evanescenti come le tante che le hanno precedute. Interlocutore nel romanzo è un fratello cui resta affidata tutta l’angoscia di vivere il dopo: “ormai tanto tempo fa, settimane, mesi, anni, una vita intera in un’altra città e in un altro tem­po rispetto a quello di adesso, dove dovrai in­vecchiare per due, è così, dovrai prenderti cu­ra di te stesso come non ha saputo fare lui, per­ché bisogna pure che uno di voi due riesca a diventare vecchio per vedere che facce avreste avuto l’uno e l’altro, più o meno, quindi resta vivo per te e per i tuoi e fallo anche per lui, anche se vi parlavate pochissimo, anche se c’era quell’imbarazzo e quello strano vuoto quando vi capitava di vedervi, lo stupore e la gioia di incontrarvi anche se non eravate capaci di con­dividere altro che quel brivido di essere insie­me, e il silenzio denso come il vostro amore di fratelli”  Il libro è un’elegia – di rimpianto e dolore immensi! – da parte di un estraneo, commemorativa della morte di un fratello sconosciuto e sventurato:

PUÒ IL VALORE DI UNA VITA UMANA ESSERE

PARI A QUELLO DI UNA LATTINA DI BIRRA?

 

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