SE IL LAVORATORE SI AMMALA

Ciro Cardinale *

Cosa rischia il lavoratore con troppe malattie?

Parliamoci chiaro. Il lavoratore che si ammala troppo frequentemente o troppo a lungo rischia di perdere il posto di lavoro, se le sue continue assenze creano problemi all’azienda. È vero che in linea di massima il lavoratore ha diritto a conservare il posto di lavoro durante i periodi di assenza per malattia, ma queste continue assenze potrebbero mettere a rischio il suo posto. Vediamo perché.

Il rapporto di lavoro. Il rapporto di lavoro dipendente è caratterizzato da due prestazioni reciproche: da una parte il lavoratore si impegna verso il datore di lavoro a svolgere la sua attività lavorativa concordata con lui o stabilita per legge, dall’altra il datore di lavoro si impegna a sua volta nei confronti del lavoratore a versagli la retribuzione dovuta per legge o per contratto. Se per un motivo qualsiasi questo rapporto di reciprocità tra le due prestazioni dovesse venire meno, perché il dipendente non lavora o il datore di lavoro non paga il salario o lo stipendio, c’è tutto il diritto di porre fine al rapporto con le dimissioni o il licenziamento, oppure di rivolgersi al giudice per dare esecuzione alla prestazione dovuta dal lavoratore o dal datore di lavoro.

L’assenza per malattia. Il lavoratore ha il diritto ad assentarsi dal lavoro se è ammalato, in modo da curarsi e riprendere la sua normale attività lavorativa. La malattia deve essere attestata dal medico curante con l’invio in forma telematica all’Inps ed al datore di lavoro del relativo certificato, che deve contenere la prognosi, cioè il periodo di riposo prescritto al lavoratore per la sua guarigione, ma non anche la diagnosi, cioè il tipo di malattia di cui è affetto il lavoratore, per ragioni di privacy. Durante l’assenza per malattia il dipendente ha diritto ad astenersi dalla prestazione lavorativa, deve cioè starsene a casa per “aiutare” la sua guarigione anche nell’interesse del datore di lavoro, che così al termine della malattia potrà ricevere di nuovo la prestazione lavorativa, nonché ha diritto a ricevere l’indennità economica determinata dalla legge o dal contratto collettivo di lavoro, che varia a seconda del settore di attività dell’azienda e della qualifica del lavoratore.

Il licenziamento per malattia. La malattia del lavoratore non è di per sé un valido motivo per il suo licenziamento, perché la legge prevede che egli ha diritto a conservare il suo posto di lavoro durante le sue assenze per malattia, ma entro il “periodo di comporto”, cioè entro un periodo massimo stabilito dai contratti collettivi di lavoro. Terminato il periodo di comporto, qualora l’assenza per malattia dovesse perdurare, il datore di lavoro può procedere al licenziamento del lavoratore, anche se spesso i contratti collettivi di lavoro prevedono la possibilità per il lavoratore di chiedere, superato il periodo di comporto, l’aspettativa non retribuita per malattia, con diritto alla conservazione del posto di lavoro per un ulteriore periodo di tempo oltre il comporto.

L’eccessiva morbilità del lavoratore. Abbiamo visto che il lavoratore può assentarsi dal lavoro per malattia fino al periodo di comporto e anche oltre, chiedendo l’aspettativa non retribuita, senza rischiare di perdere il posto di lavoro. Ma le continue assenze per malattia, anche a singhiozzo e ripetute nel tempo, oppure le lunghe assenze continuative possono diventare motivo di licenziamento. In questi casi i giudici del lavoro parlano di “licenziamento per eccessiva morbilità”, che è in realtà un recesso del datore di lavoro dal contratto per giustificato motivo oggettivo, in quanto l’eccessiva morbilità del dipendente incide sull’organizzazione del lavoro, poiché il lavoratore diventa inaffidabile per l’azienda, che non può più utilizzare il lavoratore. In questo caso il datore di lavoro potrà comunicare al lavoratore per iscritto la sua decisione di recedere dal rapporto di lavoro per eccessiva morbilità, rispettando il periodo di preavviso previsto dai contratti collettivi sulla base dell’anzianità di servizio e del livello di inquadramento del lavoratore. Ricevuta la lettera di recesso il lavoratore potrà impugnarla inviando al datore di lavoro entro 60 giorni una raccomandata ar con cui ne contesta la legittimità. Nei successivi 180 giorni il lavoratore dovrà poi depositare il ricorso innanzi al giudice del lavoro competente. Se il magistrato accerterà che il recesso è illegittimo, condannerà l’azienda a reintegrare il dipendente nel posto di lavoro o a pagargli una somma di denaro, secondo la data di assunzione, le dimensioni dell’azienda e le ragioni che hanno reso il licenziamento illegittimo.

 

*L.C. Cefalù

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