VERDI E LA CONTROVERSA OPERA IN PROGRESS

Simone Boccanegra rivisitato

Carmelo Fucarino

Dopo l’originale e atipica edizione di Les vêpres siciliennes, scoppiati nel lunedì dell’Angelo del 1282, firmata dall’estrosa Emma Dante con i vessilli dei nostri eroi antimafia e la parade di immondizia, nudi e sbudellamenti, con quell’alto appello della celebre aria Et toi, Palerme, ô beauté qu’on outrage, O tu, Palermo, terra adorata, richiamata da Domingo nell’appello sul libro di onore di Palermo da lui firmato, all’inaugurazione di questo anno operistico 2022, il tema patriottico verdiano nel segno della libertà è proseguito immediatamente con questa complessa realizzazione del medioevale Simon Boccanegra, nella fulgida regia, scene e costumi di Sylvano Bussotti, regge sontuose e mare di Genova sotto la luna. Da quella «mala segnoria, che sempre accora / li popoli suggetti», che mosse Palermo a gridar: “Mora, mora!” (Dante, Paradiso, VIII), a questo grido popolare: «All’armi, all’armi, o Liguri, / Patrio dover v’appella – / Scoppiò dell’ira il folgore; / E notte di procella. Le guelfe spade cingano / Di tirannia lo spalto – / Del coronato veglio, Su, alla magion, l’assalto» (Coro interno, Atto II scena  IX). A seguire proprio come nella reale successione dell’attività verdiana, così voluta nella programmazione verdiana dal freschissimo sovrintendente ed ex direttore tecnico il maestro e soprattutto compositore Marco Betta a reclamare un posto di onore a questa opera geniale dell’ultima fase immortale del nostro straordinario simbolo del Risorgimento. Cosa anche straordinaria, sullo sfondo di episodio storici, il primo direi mitico e creato, se non inventato dallo storicismo patriottico di Michele Amari, il secondo, collocato nel 1339, sullo sfondo delle successioni dogali nella repubblica marinara opposta e contendente a Venezia. Simone, 1° e 4° doge, “padre” della città, di fresca nobiltà, discendente da un Guglielmo, capitano del popolo e fuoruscito nel 1260 in Francia, fu primo doge, acclamato a vita il 23 dicembre 1339, per dirlo in genovese “duxe”. Assistito dal Consiglio popolare degli Anziani dei quindici il Simonino o Simoncino fu primo di quella “egemonia popolare” di mercanti in lotta con il patriziato guelfo escluso perciò dal potere ed esule nel 1344 a Pisa, nella lotta allora generale fra le due leghe di Guelfi di Roberto d’Angiò (ancora quelli dei Vespri) e Ghibellini. In quegli intrighi di potere che dominarono il periodo, i forti Visconti lo imposero ancora nel 1356. Non fu un governo facile nella lotta senza quartiere e mezzi tra le due famiglie eminenti, gli Adorno e i Fregoso per l’occupazione anche violenta della carica dogale, nel passaggio dal governo comunale alle Signorie. Il mercante doge ad acclamazione popolare diviene qui nel libretto di Piave “corsaro al servizio della repubblica genovese”, “il Corsaro all’alto scranno” di Paolo e l’”Empio corsaro incoronato” di Gabriele, proprio perché dotò Genova di quella flotta contro le scorrerie corsare dei nobili e strumento della Crociata papale contro i Turchi. Scrive Giovanni Villani: «E poi tre dì apresso i cittadini di Genova si levaro a romore e dispuosono i capitani, ch’era l’uno delli Spinoli e·ll’altro Doria, e cacciarono della terra loro e’ loro consorti e altri possenti; e feciono popolo, e chiamarono dogio al modo di Viniziani uno Simone di Boccanegra de’ mediani del popolo. Questo dogio fu franco e valentre. E poi l’anno apresso, per cospirazione di certi grandi fatta contro a·llui, fece prendere e tagliare il capo a due delli Spinoli e a più altri loro seguaci. E·ffu aspro in giustizia, e spense i corsali di Genova e della riviera, tuttora ritenendo la sua signoria a parte ghibellina, e tenendo in mare più galee armate per lo Comune a guardia della riviera.» (Nuova Cronica, Guanda, Parma, 1991, Libro dodecesimo, cap. CII) e ancora di lui «ch’avea regnato signore da anni, come adietro è fatta menzione, per sua motiva, e sentendo che gli Ori e·lli Spinoli, e Grimaldi e altri noboli co·lloro sforzo venivano alla terra, sì rinuziò la signoria dinanzi al parlamento del popolo, e andossene a Pisa con tutta sua famiglia e parenti, e dissesi con più di Cm fiorini d’oro contanti ch’egli avea guadagnati, overo tribaldati al suo uficio (Libro tredicesimo, cap. XXXVII). La sua signoria è seguita fino alla morte nel 1363, nel nucleo sentimentale di padre affranto nella versione dell’avvelenamento da parte di sicari degli avversari.

Tomba di Simon Boccanegra

 

La vicenda narrata da Verdi nel primo libretto del suo fedele Francesco Maria Piave, sodalizio iniziato nel 1844 con l’Ernani, era tratto dal dramma Simón Bocanegra di Antonio Garcia Gutiérrez ed ebbe la prima, caso da notare, alla Fenice di Venezia il 12 marzo del 1857, così da lui commentato: «Jeri sera cominciarono i guai: vi fu la prima recita del Boccanegra che ha fatto fiasco quasi altrettanto grande che quello della Traviata. Credeva di aver fatto qualche cosa di passabile ma pare che mi sia sbagliato. Vedremo in seguito chi avrà torto». Forse pesarono l’assenza di arie e l’insistenza sul declamato o forse la sua spiccata impronta politica in cui l’amore serve da contorno, l’indagine sulla psicologia dei protagonisti che per niente sono un baritono e un basso profondo assieme al traditore e assassino Paolo. Nel 1868 alla proposta di Ricordi di una revisione egli la definì “triste e di effetto monotono” e dieci anni dopo rispose ancora: «detesto le cose inutili». La riproposta di questa versione in forma di concerto al Palafenice durante la  ricostruzione della Fenice, il 2 febbraio 2001, mise in luce le debolezze della primitiva partitura e la profondità della revisione operata nel 1881. Dovettero passare ben 22 anni con tante altre esperienze e trionfi musicali. E dovette avvenire un incontro straordinario, casuale o favorito dalla diplomazia di Giulio Ricordi, complice una cena nel 1879 e l’espediente di accennare di Shakespeare e al bel lavoro su Otello del giovane Arrigo Boito. Quando l’indomani Verdi lo lesse se ne innamorò. E fu il momento esaltante di due geni che si unirono per aprire una pagina di incanto nell’opera lirica. Pensate, Boito, quarantacinquenne che dopo altre prove musicali e librettistiche nel 1868 aveva stordito a 26 anni con la musica del suo terribile Mefistofele, e Verdi sessantaseienne carico di successi e ora silente. Da quella prima edizione erano passati Un ballo in maschera, La forza del destino, il Don Carlos, l’Aida il 24 dicembre 1871. Il sommo della gloria e dei capolavori, poi il silenzio assoluto. Ecco perché quella serata e quell’incontro con il giovane furono magici, interruppero un sonno durato ben otto anni. Un sodalizio, ripeto, magico che diede alla Scala il tormentato Otello il 5 febbraio 1887, e il testamento spirituale del mistico Falstaff ancora alla Scala il 9 febbraio 1893E tale fu l’empito e la fascinazione per questo libretto del giovane appassionato romantico, poeta, librettista e musicista pure lui (postumo il suo Nerone nel 1924), che interruppe la composizione dell’Otello e si buttò anima e corpo per quasi sei settimane, dall’inizio di gennaio alla terza settimana di febbraio del 1881, alla capillare revisione di quell’abbandonato, ma, nonostante le ripulse, mai dimenticato Boccanegra. Gli era rimasto come un boccone amaro nel profondo del cuore e lo prova quella dichiarazione di amore sconfinato fatta al nipote Carrara: egli ha voluto bene a quell’opera «come si vuol bene al figlio gobbo», il suo “tavolo zoppo”. O si trattava in effetti di una prova di rivincita verso quel pubblico che lo aveva dimenticato, la rivalsa in concreto che ancora era capace di scrivere musica e far rivivere un testo a nuova vita, che la sua genialità non si era addormentata? E fu un capolavoro assoluto, pur senza cavatine e cabalette, vista addirittura come “prosa musicale”. Anzi a seguire gli altri due capolavori immortali, dobbiamo dire che non aveva ancora raggiunto le somme vette, l’apice suprema dell’arte. Questa versione ultima debutterà alla Scala il 24 marzo 1881 sotto la direzione del più grande direttore del tempo Franco Faccio, con Victor Maurel-Simone, Francesco Tamagno-Gabriele, Anna D’Angeri-Amelia. Allora scrisse Verdi opera «triste perché dev’essere triste, ma interessa», per quella sonorità cupa e malinconica. Non si era però conclusa la vicenda dell’opera. Da quella prima scaligera di questa nuova profonda revisione calò ancora il sipario e scomparve dal repertorio e dai tabelloni dei teatri lirici mondiali. Il recupero si ebbe per merito della Verdi–Renaissance tedesca. Già dal 1929 comparve in tedesco nei cataloghi dei maggiori teatri tedeschi e interpretata da valenti registi e interpreti, come nel gennaio 1930 da Clemens Krauss e addirittura per ben 144 recite allo Staatsoper. Nel 1932 sbarcò al Metropolitan di New York con la direzione di Tullio Serafin. Epocale la resa scaligera del maestro Claudio Abbado, con regia di Strehler e scene di Frigerio, le edizioni dirette da Gabriele Santini e di Riccardo Muti all’Opera di Roma nel 2012. Il Massimo riprende la versione nell’allestimento del 1979 per il Teatro Regio di Torino con regia, scene e costumi di Sylvano Bussotti, grande compositore, ma anche pittore, poeta e romanziere, attore e tante altre arti ancora, morto lo scorso 19 settembre 2021. E in tema di omaggi si è voluto ricordare con un minuto di silenzio il violinista Massimo Barrale, morto a 64 anni, che è stato esperto interprete della musica concertistica palermitana e di fama internazionale, “spalla” della Orchestra Sinfonica Siciliana e successore dell’indimenticabile Salvatore Cicero, scomparso anche lui prematuramente a 42 anni nel 1982. Oggi, nello splendore della sala del Massimo, abbagliata dalla scena di Sylvano Bussotti e dalle sapienti luci di Vincenzo Raponi, rimangono nelle orecchie e nel cuore a cominciare dal Preludio, il recitativo di Fiesco A te l’estremo addio o la scena di Amelia con l’aria Come in quest’ora bruna o il suo duetto di amore con Gabriele o la sua cabaletta, ma quello che ha lasciato dei brividi è stata la superba interpretazione di Gran Dio, li benedici e la scena finale di Domingo, la sua voce resa limpida e bella dalla straordinaria acustica del teatro e la recitazione appassionata e sentita sulla pelle di un artista inossidabile di 81 anni, passato dalla sonorità di tenore a baritono.

PER CHI VOLESSE APPROFONDIRE:

https://www.lavocedinewyork.com/arts/spettacolo/2222/02/18/placido-domingo-canta-al-massimo-di-palermo-i-fascino-dellultimo-dei-divi-dellopera/

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