L’ELISABETTA LA GRANDE SI DIMETTE PER AMORE

Carmelo Fucarino

Ph. Rosellina Garbo

Roberto Devereux di Gaetano Donizetti è già stata rappresentata a Palermo nella stagione 1994. Erano gli anni della sovrintendenza Mirabelli (1977-1995) e del “teatro senza teatro”, ospite del Politeama con la bellissima Quadriga bronzea di Mario Rutelli, il Trionfo di Apollo ed Euterpe, e i cavalli e cavalieri di Benedetto Civiletti e gli affreschi del porticato policromo in stile pompeiano, Garibaldi con ai lati la Tragedia e la Commedia. E gli anni dell’apertura alle scuole. Fui anch’io con tessera annuale ad accompagnare i miei alunni alle stupende serate con il lancio di Leo Nucci e Mariella Devia. L’opera è in tre atti su libretto del suo fedele Salvatore Cammarano (gli scrisse otto libretti fra cui il capolavoro della Lucia del 1835), rielaborato dalla tragedia Elisabeth d’Angleterre di Jacques Francois Angelot. Il compositore bergamasco (29 novembre 1797 – 8 aprile 1848) e certamente secondo i gusti del suo pubblico di primo Ottocento era affascinato dalle regine inglesi e questa opera fa parte del Ciclo delle regine Tudor, che comprende anche Anna Bolena (1830) e Maria Stuarda (1835). Fra le quasi settanta opere e le molte composizioni sacre e da camera a parte le regine (Zoraida di Granata, Alina, regina di Golconda) abbondarono nel suo teatro anche le donne celebri (Lucrezia Borgia, Pia de’ Tolomei, Caterina Cornaro), quasi a seguire la preferenza del cosiddetto misogino Euripide per le sue protagoniste femminili: in questa la vera protagonista è senz’altro la regina. Con qualche licenza storica per ragioni di pathos scenico, come la mai avvenuta abdicazione della regina a favore di Giacomo I, trae materia dal suo amore per il conte di Essex, Robert Devereux. La storia, come per le precedenti opere, serve solo da sfondo e pretesto per la narrazione di privati amori traditi o non corrisposti. Postergata dall’orribile estate che vide la morte del terzo figlio e dell’amata moglie Virginia, rinviata da luglio ai primi di settembre anche per intervento della censura che non gradiva la decapitazione del protagonista del titolo, andò in scena al San Carlo di Napoli il 29 ottobre 1837. Ripresa nel 1882, la sua rinascita e il ritorno nei teatri del mondo avvenne nel 1964, fino al ruolo della grande Montserrat Caballé. L’opera ritorna a Palermo nell’allestimento della Welsh National Opera di Cardiff, con scenografia e costumi lineari e classici, il dark-gothic di Madeleine Boyd, con poche sorprese frastornanti, le ormai abusate attualizzazioni a-storiche, perché tali non si possono considerare, l’immobile vasca per pesci e quell’incubo finale del ragno-trono regale, che dà vigore alla lacerazione interiore della regina, tra odio e dolce ardore, tra tensione espressiva e furore spasmodico, quel desolato assolo di un’anima tradita nel suo regale orgoglio, ma pronta a cedere, E Sara in questi orribili momenti… Vivi, ingrato. E gli spettri tra gemiti e grida (Mirate quel palco… di sangue rosseggia…/ È tutto di sangue il serto bagnato…/ Un orrido spettro percorre la reggia, / tenendo nel pugno il capo troncato… / Di gemiti, e grida il cielo rimbomba… / Pallente del giorno il raggio si fe’… / Dov’era il mio trono s’innalza una tomba…/ In quella discendo… fu schiusa per me».).

A dirigere l’orchestra del Massimo un nostro amato e di casa, habitué di tanti intensi appuntamenti, Roberto Abbado con la sua appassionata lettura che lo coinvolge personalmente. Dal suo sito: «Insignito del prestigioso “Premio Abbiati” dall’Associazione Critici Musicali Italiani, “per la compiuta maturità interpretativa, l’ampiezza e la curiosità del repertorio nel quale ha offerto esiti rimarchevoli attraverso un’intensa attività stagionale”, Roberto Abbado è attualmente Direttore Musicale del Festival Verdi di Parma e dal 2022 Direttore Principale della Filarmonica del Teatro Comunale di Bologna». Memorabile a Palermo la sua Lucia di Lammermoor con sei chiamate in proscenio il maggio 2021. Strabiliante: nel 1997 al concerto inaugurale per la riapertura fu presente Claudio Abbado, nonno Guglielmo siciliano, alla guida della filarmonica di Berlino, e ancora in concerto nel 2002 con il Nuovo Mondo di Dvořákřř. Sempre attento e preciso l’imponente paludato Coro di Lord del Parlamento e quello delle Dame di Corte, diretto, perfetto in L’ore trascorrono, surse l’aurora (Atto II, scena I). Già il cupo preludio, seguito dal romantico avvio della antagonista Sara fatta rivivere nelle note romantiche del bel canto con acuti e gorgheggi dalla giovane mezzo-soprano (nata il 1993), ma già star del bel canto (Rossini, Bellini, ma non solo) nei teatri del mondo con la romantica romanza Geme!..pallor funereo – All’afflitto è dolce il pianto, seguita dalla cavatina La regina – L’amor suo mi fe’ beata o nel duetto con Roberto Scena e duetto Tutto è silenzio!…Nel cor soltanto – Il vero intesi?…Ah! parmi. È Basilissa Berzhanskaya, bel nome, significa in greco “Regina”, per la quale è programmato mercoledì un recital da sola protagonista su musiche esclusive del suo cavallo di battaglia, Gioacchino Rossini. E, grazie, Palermo, stella di civiltà, nonostante la stampa ti taccia della sola nomea di mafiosa, a confronto con la moderna e civile Milàn che cancella Dostoevskij, martire della crudeltà di Nicola I che dopo la prigione nella fortezza di Pietro e Paolo, lo condannò alla fucilazione e lo graziò quando i fucili erano già puntati con la pena ai lavori forzati in Siberia. Perciò l’epilessia e il terrore eterno che non salva neppure con il transfert di Delitto e castigo e che rivive nell’angoscia di L’idiota («A chi sa di dover morire, gli ultimi cinque minuti di vita sembrano interminabili, una ricchezza enorme… Ma forse il dolore principale, il più forte, non è quello delle ferite; è invece di sapere con certezza che, ecco, tra un’ora, poi tra dieci minuti, poi tra mezzo minuto, poi ora, subito, l’anima volerà via dal corpo, e non sarai più un uomo, e questo ormai è certo»). Eccellente pubblico palermitano che alla russa dall’arte di incanto e magia, non grida krasotka, “bella fanciulla”, go home!, “Vai a casa!”, ma la copre di “brava” e bis, pur essendo russa e di scuola e patria russa. Grazie, sovrintendente Marco Betta, che ci hai resi “uomini eccelsi ed unici”, a godere la bellezza e l’eccellenza dell’arte, senza razzistici pregiudizi che fanno di tutt’erba un fascio. Come è sempre avvenuto nelle civili nazioni occidentali, ove il cittadino di un paese nemico in guerra è stato recluso nei campi di concentramento, qui dove i nostri prigionieri sono stati ad abbrustolire nel deserto del Texas o a mangiare bucce di patate in India. Ricordate, concittadini, le terribili crudeltà dell’ultima guerra, la martire Dresda, 600 mila falciati in una sola notte, e la Norimberga a senso unico come oggi il tribunale dell’Aia. Palermitani, ricordate la Palermo distrutta, ancora visibile (ma anche Torino e Milano che hanno saputo subito togliere la vergogna delle macerie), con la semplice fuga nei paesi interni e senza collette, unica uscita la misera carta annonaria. Ancora oggi la truppa mandata a morire e ad uccidere da carnefici pazzi ben protetti e al caldo, tanto ci sono i droni e i missili a lunga gittata. Ma così va la storia, per Tucidide, la vita della Grecia fu vissuta con la spondé, la “tregua” tra una guerra e l’altra. Nella tragedia sentimentale di Elisabetta, non ci sono che fievoli dicerie di guerre. Al marito di Sara, duca di Nottingham, ha dato la voce il baritono Davide Luciano. Ma la parte di star incontrastata della regina è stata affrontata con forza e irruenza dalla soprano spagnolo Yolanda Auyanet, già nota al Massimo per la sua interpretazione di Norma assieme a Mariella Devia. Il Roberto che dà il nome all’opera ha reso il belcanto ottocentesco con il tenore americano John Osborn, anche lui una star internazionale che ha affrontato con piglio nel finale Ed ancor la tremenda porta… A te dirò, negli ultimi singhiozzi.

È la Westminster del 1601 con i soliti intrighi di corte che abbiamo sperimentato a cominciare dalla prima di Les Vespres al Boccanegra e il solito “triangolo scaleno dell’amore”, secondo Günther Anders, schiacciato tra Hanna Arendt e Martin Heidegger, qui addirittura quadrangolo: la regina che ama l’assai giovane Roberto, che ama tra ripulse e abbandoni Sara, che su volere della regina ha sposato il duca di Nottingham, fidato amico di Roberto. In una corte ove l’amore è un contorno per romantici slanci, sullo sfondo l’accusa di tradimento e addirittura l’organizzazione di una rivolta. E così la prigione nella torre di Londra, nel dissidio interiore drammatico, – grande novità scenica – e nello scontro tra la ragion di Stato e l’amore che sta per prevalere. Dominata dalla gelosia e dal desiderio di vendetta, più propensa al macero interiore della disperazione della gelosa Norma. Questo tormento si esacerba in un vocalismo difficile, virtuosistico eppure pieno di mestizia. Eppure il rombo del cannone annunzia la fine di un amore che si concedeva anche il perdono. Quanto ci fosse della grande Elisabetta, figlia di Enrico VIII e Anna Bolena, passata alla storia come “regina vergine” o Gloriosa o “la buona Regina Bess”, quanto della sua vita spesa per il dominio sull’Europa, tra le guerre di Francia, Scozia, Spagna (“la superba Cadice” e il dono dell’anello), tra rivolte e complotti, si riduce all’eco di campagne gloriose dalle quali il giovane amato sta ritornando. Addirittura all’accusa di esser cambiato e alla risposta: «No…che dici!… Parla un detto, ed il guerriero sorge, e fuga i tuoi nemici. D’obbedienza, di valore prove avrai.», la regina obietta: «(Ma non d’amore!) Vuoi pugnar! Ma di’: non pensi che bagnar faresti un ciglio qui di pianto?… Che l’idea del tuo periglio palpitar farebbe un core?». Ho per una volta voluto accennare alla trama, perché fosse palese l’argomentare del teatro ottocentesco che è basato tutto su personaggi ed episodi storici, – basta dare una scorsa ai titoli di Donizetti – della Storia con la esse maiuscola, che in quegli anni si risolveva in guerra di conquista, sovrani contro sovrani, che trattavano gli abitanti come animali da macello di proprietà privata come le terre. Allora? Ne sappiamo qualcosa dalle recenti due guerre mondiali e dalla finta pace e dalla spartizione del mondo a Yalta con una matita, denominata con sfacciata sicumera “guerra fredda”, dimenticando le stragi delle lunghe guerre condotte attraverso popoli terzi, vere guerre con bombe a grappoli e gas dall’indomani della strage di Hiroshima e Nagasaki, con la Corea ancora spartita in due, e poi il lungo e sofferto eccidio in Vietnam, e poi il Kuwait, l’Iran, l’Iraq, la Libia ancora in disfida, fino al decennale genocidio di Siria e al desolato Yemen, ignorati senza neppure lacrime di coccodrillo e aiuti e lai di circostanza. A bombardare la Siria sono tutti d’accordo, dello Yemen non si parla, è la fidata amica Arabia del petrolio, oggi ancor più cara.

 

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