LA FESTA DEI MORTI

Francesco Paolo Rivera *

Pupi di zucchero

Le feste celebrative dei defunti, in Italia, hanno origini molto antiche, essendo state influenzate sia dalle tradizioni religiose dei popoli che abitarono nel territorio della penisola italica che da quella dei popoli dell’Europa centrale e anche dalla Grecia. I popoli antichi onoravano i defunti sia perché si sentivano legati alla memoria dei propri antenati, ma anche e soprattutto per placarne gli spiriti e renderli inoffensivi nei confronti dei viventi, considerato che la credenza popolare era portata ad immaginare che i morti, di tanto in tanto, ritornavano sulla terra a volte anche camuffati da spiriti diabolici. La religione romana, quella che per maggior tempo fu presente sul nostro territorio, non fu mai una religione autoctona in quanto una delle sue caratteristiche fu l’apertura alle concezioni sociali dei popoli sottomessi. di cui spesso assimilava credenze e riti, Roma rispettava le tradizioni sociali, politiche e religiose dei popoli conquistati che integrava con la legge e la giurisdizione romana.  Fu profondamente influenzata dalle tradizioni etrusche, sannitiche, sabine e latine presenti sul territorio italico, da quelle dei Galli e dei Celti, provenienti dall’Europa centrale e da quella greca (dopo l’occupazione della Grecia avvenuta tra il terzo e il secondo secolo a. C.). Caratteristica principale era l’apertura alle concezioni sacrali degli altri popoli di cui spesso assimilava le divinità, le credenze e i riti, integrandoli con la legge romana. L’uomo romano era profondamente religioso, la “pietas” era il tipico sentimento del mondo romano, e si esprimeva nella venerazione dovuto agli Dei e con i sacrifici rituali. Oltre alla venerazione dovuta agli Dei era molto sentita la venerazione per le divinità poste a protezione della casa, i lari e i penati che comportava anche quella all’intera comunità. Per gli antichi romani la rappresentazione della morte si identificava con “Mors” che poi venne personificata con la divinità etrusca “Orcus”. Non appena si cessava di vivere, la vita si spegneva ma non l’anima che sopravvivendo scendeva nel mondo sotterraneo di Ade, ed avendo queste anime la possibilità di tornare nel mondo dei viventi si tramutavano in essenze divine, (Dei Manes), prive di carattere personale, ritenute sacre, alle quali venivano consacrati i sepolcri e venivano tributate, in diverse festività, numerose pratiche rituali. Il 21 febbraio (ultimo giorno del mese dedicato al ricordo dei defunti) si celebravano i “feralia”, durante i quali, oltre ai sacrifici si offrivano, in anfore, ai defunti fiori, spighe di grano, pane ammollato nel vino, sale., al fine di placarne gli spiriti e renderli inoffensivi. Altre feste erano dedicate ai defunti, durante l’anno e nelle varie regioni della penisola, che con l’avvento del Cristianesimo, furono cristianizzate anche loro (come “Lemuria” o “Lemuralia”, che si celebravano tra il 9 e il 13 maggio per esorcizzare gli spiriti dei morti). E volendo accennare alla commemorazione dei defunti in Sicilia, sembra più appropriato far uso della espressione di “Festa dei Morti” . Era una ricorrenza molto sentita risalente a prima del X° secolo a. C. che veniva celebrata il 2 di novembre. Secondo la tradizione, la notte tra l’1 e il 2 di novembre i defunti visitavano i loro parenti in vita e portavano ai bambini dei doni. La data del 2 novembre pare che sia stata determinata su proposta del monaco benedettino san Odilone, abate di Cluny, agli inizi dell’anno mille.

Armi sante, armi sante, / io sugnu uno e vuatri siti tanti; / mentri sugnu ‘ntra stu munnu di guai / cosi di morti mittitiminni assai!

Così scrisse Antonino Buttitta (baariotu, 1933-2017, antropologo, studioso dei percorsi simbolici della cultura popolare siciliana, storico delle tradizioni, figlio del poeta dialettale Ignazio Buttitta) “Contrariamente a quanto si costuma nel resto d’Italia, in Sicilia, e in qualche altro luogo del Meridione, vige l’uso di fare le strenne ai fanciulli il 2 novembre, giorno tradizionalmente consacrato alla celebrazione dei defunti. I doni li portavano i morti, per questo si lasciavano le porte aperte la notte tra l’uno e il due di novembre.” Naturalmente i doni li acquistavano sulle bancarelle della fiera i parenti, che provvedevano a nasconderli dentro casa, per farli ricercare e scoprire dai fanciulli (tradizione antichissima anche questa). Ma oltre ai giocattoli di ogni sorta, si regalavano anche i dolci tipici disposti “’nto cannistru (“i crozzi ‘i mortu , i pupatelli, i taralli, i tetù …), ma non potevano mancare “i pupi di zuccaro”  altrimenti denominati “pupi di cena” o “pupaccena”, piccoli capolavori di zucchero dipinti a colori vivaci, con forme umane (antropomorfe) raffiguranti “Paladini di Francia” (Orlando, Rinaldo …), ma anche  bambole, ballerine, cavalli … insomma tutti i personaggi del  “Teatro dei Pupi”.   Queste statuine, ancora oggi esistenti, venivano confezionate addirittura fin dai tempi della dominazione araba. Secondo una leggenda- un nobile saraceno, caduto in miseria, li offrì ai suoi ospiti in sostituzione del cibo, ottenendo un grande successo … e pare che sia stato questo l’evento che abbia fatto nascere la denominazione di “pupi di cena”  Si racconta che, per la visita di Enrico III° di Valois (re di Francia e di Polonia, figlio di Caterina de’ Medici) a Venezia nel 1574 i maestri dolciari (si disse su modello predisposto dalla bottega del Sansovino) inventarono tali sculture di zucchero, che vennero copiate dai marinai dei bastimenti che le portarono in Sicilia. Al di là di tutte le leggende, l’origine di tali statuine deriva dai culti pagani, un tempo per essere più vicini ai defunti si usava banchettare, a fianco delle tombe, nel cimitero stesso, ciò era importante per mantenere un legame tra defunti e i parenti in vita, per insegnare ai fanciulli a non aver paura dei defunti, per ricordare l’affetto che si nutriva per loro. Molti antropologi siciliani (Antonino Buttitta, Giuseppe Pitrè) hanno studiato il significato storico e culturale di questa usanza, che, sotto certi aspetti, si collega con l’altra usanza, il “consolu” (in lingua siciliana, vuol dire “portare conforto:”. “U’ consolu” è l’abitudine di portare ai familiari del defunto, che per il luttuoso evento non hanno né la voglia né il tempo di prepararlo, per qualche giorno dopo il decesso, un pranzo completo …) che si ricollega alla annuale festività religiosa romana della “compitalia” (si offrivano ai Mani dei dolci al miele, e si appendevano avanti la porta di casa figurine confezionate in lana). Il significato dei dolci offerti ai defunti in Sicilia, secondo gli studiosi è duplice, da una parte rappresenta una offerta alimentare ai defunti, da un’altra parte è un esempio di “patrofagia” simbolica “ingestione rituale” dei corpi dei genitori e dei consanguinei (i parenti del defunto mangiando le statuine antropomorfe che raffiguravano le anime dei morti, si cibavano dei trapassati stessi … il così detto “cannibalismo rituale). Tali statuine venivano (e vengono ancor oggi) realizzate da abili artigiani, detti “gissari” che modellavano lo zucchero, in calchi di gesso o di terracotta: la parte frontale è intarsiata, mentre quella posteriore è disadorna. Lo zucchero, sciolto in acqua bollente, viene lavorato in un tegame di rame, con un concentrato di limone e cremor di tartaro (sostanza presente in molti frutti: specie uva e tamarindo) e per fusione viene introdotto all’interno dei calchi, in modo da lasciare un vuoto tra le due parti della statuina, che incollate tra di loro sono pronte per essere decorate. La colorazione viene effettuata con colori alimentari: il giallo dallo zafferano, il rosso dal pomodoro, il verde dalle verdure, l’azzurro dal miglio (panicum millaceum), il bianco dal latte, lo scuro dal cacao, e dopo l’asciugatura del colore, viene decorata con palline di zucchero argentate, nastrini di ogni colore e tipo, e si rifinisce ogni altro dettaglio col pennello da pittore (“impupata”). Il capolavoro luccicante è pronto per essere ammirato e … mangiato!

*Lions Club Milano Galleria distretto 108Ib4

 

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